29.11.2017

La ripresa non frena la fuga dei giovani

  • Il Corriere della Sera

Se gli anni avessero nomi e non solo dei numeri, il 2017 andrebbe definito quello della doppia velocità: la ripresa accelera, e il numero di italiani che se ne vanno per cercare di farsi una vita all’estero continua a crescere verso livelli mai raggiunti prima. Il ritmo al quale l’economia italiana ha iniziato a produrre nuovi posti di lavoro, per ora, non ha intaccato la voglia dei giovani di voltare le spalle al Paese e andarsene.

Non sarebbe scontato, a giudicare dal mercato del lavoro. Nell’ultimo paio d’anni la velocità di creazione di nuovi posti netti in Italia si sta dimostrando rapida come mai prima: 200 mila in più nell’anno che si è chiuso a giugno scorso, 370 mila in più in quello precedente. In media l’occupazione è aumentata di 550 unità al giorno nell’anno concluso a giugno, di oltre mille nell’anno prima.

Si tratta senz’altro di un primato favorevole. All’inizio della ripresa nel 2014 l’Italia generava due-trecento posti netti al giorno, una velocità a sua volta dieci volte superiore alle medie di lungo periodo dell’ultimo quarantennio. Questa nuova occupazione non composta necessariamente di attività da poche ore alla settimana e sottopagati: il numero medio di ore lavorate non cala, secondo l’Istat, e i nuovi contratti restano abbastanza stabili a poco meno 1.900 euro lordi al mese secondo l’Inps.

Eppure, niente di tutto questo sta fermando i giovani. Per molti di loro resta più attraente l’uscita dal sistema, proprio mentre in Spagna, Portogallo e altri Paesi europei colpiti dalla Grande recessione i deflussi ormai stano scemando. Un segnale recente è arrivato quando il dipartimento del Lavoro di Londra ha pubblicato le cifre sugli stranieri che nell’anno chiuso a giugno 2017 avevano attivato un «National Insurance Number» per vivere e lavorare nel Regno Unito. Fra i principali Paesi europei, solo Italia, Grecia e Bulgaria registrano flussi in aumento rispetto all’anno prima e solo l’Italia (con 60 mila iscrizioni) lo fa fra i grandi Paesi di origine delle migrazioni verso la Gran Bretagna (vedi grafico). Spaventati dalla Brexit o incoraggiati dalla ripresa nei loro Paesi, spagnoli, portoghesi, irlandesi, polacchi, ungheresi o slovacchi fanno tutti segnare crolli a doppia cifra degli afflussi verso il Regno Unito. Ma né l’uscita di Londra dall’Unione Europea, né il rallentamento dell’economia britannica, né l’accelerazione di quella italiana intaccano gli arrivi di italiani.

Si tratta in gran parte di giovani. Destatis, l’ufficio statistico tedesco, nel caso degli italiani in arrivo nel 2016 registra un’età media di trent’anni (meno di 29 per le donne). I più recenti italiani che si stabiliscono in Germania tendono persino a essere più giovani dei loro omologhi greci, portoghesi, polacchi o ungheresi. Come se avessero concluso subito che è meglio non provare neanche davvero a farsi una vita nel proprio Paese di origine.

L’emigrazione italiana verso la Germania nel 2016 segna un rallentamento, ma molto lieve: l’ufficio statistico tedesco registra 50 mila arrivi; sono meno dei 74 mila del 2014, eppure più degli arrivi di italiani del 2012 quando in Italia c’era stata una distruzione netta di oltre 200 mila posti di lavoro. Anche la Svizzera, terza grande destinazione degli emigranti di casa nostra, non riporta continui aumenti: 19 mila nel 2016, che pure è stato l’anno di maggiore creazione di lavoro in Italia da decenni. Secondo l’anagrafe del Viminale gli italiani all’estero sono ormai oltre 5 milioni, due in più che nel 2006 e quasi un decimo della popolazione nazionale. Anche l’ultimo «Migration Outlook» dell’Ocse, il centro studi di Parigi, mostra flussi che continuano a crescere mentre frenano per spagnoli o portoghesi.

La recessione ha scatenato tutto questo, ma la ripresa (per ora) non vi sta ponendo rimedio. Si direbbe che sia la struttura della società italiana e non solo la congiuntura dell’economia a alimentare l’esodo: la ripresa non fa posto ai giovani. Guido Tintori, un ricercatore del centro studi Fieri, indica il basso numero di manager professionali nelle imprese familiari, la bassissima quota di laureati alla guida delle imprese e la chiusura del mondo delle professioni. Questa struttura si dimostra fondamentalmente incompatibile con un’Europa nella quale votare con i piedi e andarsene diventa la scelta più facile del mondo.

Federico Fubini