26.02.2015

La lezione Bbc che i partiti non capiscono

  • Il Corriere della Sera
«Nessuno fermerà la modernità, fuori i partiti dalla Rai», tuonò il premier. Furono fischi, e applausi. Io applaudo, non perché i partiti siano «cattivi», ma perché decidono indirizzo e governance di un’azienda sulle cui caratteristiche capiscono poco. Fra i 40 senatori e deputati, membri della commissione parlamentare di Vigilanza, in cui sono rappresentati tutti i partiti in proporzione ai voti ricevuti, troviamo dirigenti di partito, imprenditori, architetti, impiegati, sindacalisti (Epifani) ex ministri (Gelmini, Brunetta, Gasparri), e qualche raro giornalista con esperienza di ufficio stampa. Garantiscono la lottizzazione (che chiamano pluralismo) ma come tutelano il contribuente che paga il canone? Che competenze hanno per orientare i contenuti delle trasmissioni e dell’informazione? 
Ora il direttore generale della Rai decide che per entrare nella «modernità» bisogna riorganizzare l’azienda, ridurre costi e dirigenze, differenziare il prodotto e renderlo più competitivo. Si comincia con i telegiornali. Nessuna tv pubblica al mondo ne ha tre, con tre organizzazioni autonome declinate per influenza politica. Gubitosi ha deciso di accorpare e il modello di riferimento è quello considerato il migliore su scala planetaria: la Bbc.
Si studiano gli aspetti di razionalizzazione tecnica: gli anglosassoni hanno creato una unica newsroom per la raccolta delle notizie e il coordinamento dei mezzi e dei giornalisti sulle diverse piattaforme. In pochi anni hanno ridotto i costi del 20%, eliminato 50 dirigenti intermedi, e sono diventati imbattibili nella qualità dell’offerta. Alla commissione parlamentare di Vigilanza questa «rivoluzione» non piace subito e ne vogliono capire di più. Lo scorso dicembre convocano in audizione la signora Anne Hockaday (lungo passato da corrispondente per la Bbc, ora responsabile della newsroom) per farsi spiegare come funziona da loro questa novità. Il collegamento con Londra cade continuamente, la signora parla, ma in aula non si sente quel che dice. Alla fine la commissione decide di inviare le domande per email.
Prima domanda dei nostri: «Come fate a garantire il pluralismo informativo con una sola newsroom?» Risposta: «Noi abbiamo una sola newsroom che organizza e supporta il lavoro dei giornalisti per metterli in grado di interagire sulle diverse piattaforme con la miglior velocità e qualità possibile. Ogni programma e ogni canale ha il suo direttore e la sua autonomia editoriale». Abbiamo confuso la macchina organizzativa con il telegiornale che viene trasmesso unicamente su Bb1 e della cui imparzialità è difficile dubitare. Pazienza. Seconda domanda: «Il singolo giornalista che realizza un servizio solo per la tv, può farlo anche per la radio e Internet con la stessa efficienza e qualità?». Risposta: «Certamente sì, il giornalista che realizza un servizio per la tv conosce la storia, e quindi se è richiesto la può raccontare anche alla radio e pubblicarla sul web».
Se l’avessero chiesto a noi, che lo facciamo da anni, avremmo risposto uguale. Facciamo solo più fatica, perché manca appunto l’organizzazione. Terza domanda: «Può essere che riducendo il numero dei manager si abbassi la qualità dei controlli, come è successo con il vostro direttore generale che nel 2012 ha dovuto dimettersi perché era stata data un notizia non verificata?». Risposta: «Come dimostra il livello di audience, la qualità dell’informazione della Bbc è estremamente alta, e quell’errore del giornalista non è attribuibile alla creazione della newsroom».
La domanda è bizzarra poiché a memoria d’uomo, in Rai, non si ricorda un solo caso di un direttore generale che si sia dimesso a seguito dell’errore di un giornalista (o di altre questioni altrettanto gravi) al fine di preservare la reputazione e l’affidabilità della tv pubblica.
Bene, adesso che ha acquisito tutte queste informazioni, la commissione si è chiarita le idee sul pluralismo informativo, che con la newsroom c’entra come i cavoli a merenda? Non si capisce. Noi siamo il Paese dove la notizia riportata dal Tg1 è filogovernativa, quella del Tg2 orientata sul centrodestra, quella del Tg3 verso il centrosinistra, se ne deduce quindi che i nostri giornalisti sono faziosi. Forse è per questo che in Italia, qualunque cosa racconti, il pubblico non ti crede mai fino in fondo. Forse ti percepisce come schierato a seconda del canale da cui parli, e quindi l’informazione non innesca quella consapevolezza necessaria ad espellere dal sistema chi non agisce nell’interesse generale, o esercita il potere per un tornaconto personale, e pertanto hai spesso l’impressione di essere inutile. Vai in onda su Rai3? Sei comunista! Lavori per il Tg2? Sei leghista. Punto. Naturalmente la realtà è diversa: ogni telegiornale e ogni programma informativo trasmesso dal servizio pubblico deve essere pluralista, obbiettivo, imparziale, altrimenti sei punito dall’Agcom. E allora che senso hanno tre telegiornali, ognuno con la propria struttura, mezzi, personale e dirigenza? A cui si aggiungono Rainews24, la Tgr, il Giornale radio.
Per la prima volta, dalla caduta del muro di Berlino, un direttore generale ci sta provando: accorpamento sotto un’unica direzione di Tg1 e Tg2, che trasmetteranno due prodotti diversi. Il Tg1 le notizie rilevanti del giorno e quelle istituzionali, mentre il Tg2 si dedicherà a fatti di costume e grandi eventi. Sotto un’unica direzione finiranno poi il Tg3 (con un’offerta posizionata sull’informazione estera e sociale), Tgr, e Rainews24, con implemento dell’edizione online che ingloberà anche le notizie locali. Un primo passo verso la «modernità» che dovrebbe essere, in un futuro (speriamo prossimo) quella di avere un unico sistema organizzativo a cui faranno capo tutte le piattaforme news e un solo Tg nazionale.
Ci sarà anche da sistemare la spinosa questione delle sedi locali: troppe, occupano spazi enormi, inutilizzati e onerosi. Qualche dirigenza salterà, magari un po’ di personale sarà da prepensionare, ma la decadenza sarà inevitabile se non si mette mano ad un progetto che stia al passo con i tempi. A parole tutti vogliono l’efficienza e la riduzione dei costi, tranne quando tocca la propria sedia o il proprio potere, piccolo o grande che sia, a partire dai sindacati.
Mentre volano i coltelli, oggi il Consiglio d’amministrazione Rai si esprimerà.
Siccome tutti i discorsi, con ogni probabilità, si contorceranno attorno al «pluralismo» minacciato, val la pena ricordare che i giornalisti che lavorano per il servizio pubblico devono (dovrebbero) fornire solo notizie accurate e imparziali, e che l’imparzialità già racchiude il concetto di pluralismo. Inoltre i diversi punti di vista sono ben rappresentati nella infinita lista di talk show e programmi di approfondimento presenti su tutte le reti e la radio.
Il vero punto cruciale dovrebbe invece essere il criterio di nomina dei nuovi due direttori. Se non vengono pescati fra chi ha competenze dimostrate sul campo, fallirà l’intera operazione (nell’auspicabile ipotesi che vada in porto). Siamo sicuri che Renzi non mente quando dice che vuole buttare fuori i partiti dalla Rai, e pertanto non si sognerà di metterci becco. Mentre sarebbe interessante sapere cosa intende quando dice che vuole cambiare le regole. Vuole forse dire che non sarà più il ministero del Tesoro ad indicare il direttore generale? Vuole abolire la commissione di Vigilanza perché di fatto è un parlamentino, e sostituirla con un organo più simile al Bbc Trust? Benissimo. Saprà qual è la procedura di reclutamento, visto che è ben descritta sul loro sito, dove sono presenti anche i curricula dei singoli componenti. Avrà modo di leggere che tutti coloro che hanno cariche operative hanno avuto una importante esperienza televisiva, e quindi sanno di cosa parlano quando devono valutare la nomina del direttore generale. Al fine di completare la sua informazione potrebbe leggere anche dove venivano gli ultimi 10 direttori generali, e confrontarli con i nostri.
Infine, in Inghilterra come in Italia e in ogni Paese dove esiste la tv pubblica, sono i cittadini, come destinatari di un servizio per cui pagano il canone, ad avere l’ultima parola. Anche sull’imparzialità dell’informazione.