16.01.2013

La guerra delle valute, l’Europa perde colpi ma l’euro è il più forte

  • Il Corriere della Sera

Quando all’inizio di novembre tre banchieri centrali europei dissero che la Bce avrebbe potuto tagliare i tassi, l’euro reagì subito. Pochi istanti dopo, la moneta unica perse lo 0,5% sul dollaro e ancora di più sullo yen giapponese: era bastato che qualcuno dall’interno dell’Eurotower facesse sapere che nella banca, allora, esisteva una maggioranza favorevole a un taglio.
Erano i giorni successivi alla riunione di inizio novembre del consiglio direttivo della Bce. All’esterno la fuga di notizie apparve come una critica al presidente Mario Draghi: anche se la maggioranza nel consiglio era pronta, non aveva osato ridurre il costo del denaro di fronte all’opposizione della Bundesbank.
Qualcosa del genere (senza le tensioni politiche) si è ripetuto un mese dopo. A inizio dicembre Draghi esce dal consiglio e dichiara che sui tassi d’interesse c’è stata «un’ampia discussione». Il mercato prende le sue parole per ciò che appaiono: un’apertura a un futuro calo dei tassi d’interesse sul denaro che la Bce presta alle banche. L’istituto di Francoforte sembra persino disposto ai cosiddetti «tassi negativi» sui depositi: succede quando le banche commerciali pagano qualcosa per tenere i loro fondi depositati in Bce, dunque hanno un incentivo a farli circolare.
Anche quella volta l’euro reagì nel modo classico, andando giù. Non avrebbe continuato per molto: in gennaio la Bce ha cambiato rotta. Draghi ha detto che un taglio non è stato neanche discusso e che si vedono i segni del «ritorno alla normalità». È anche con queste esitazioni che si spiega il paradosso degli ultimi mesi: fra le grandi aree avanzate, l’Europa è quella con l’economia più debole e con la moneta più forte. Nel 2012 il prodotto della zona a moneta unica si è contratto di mezzo punto, mentre l’America è cresciuta del 2,2% e il Giappone dell’1,7%. Alcune dei Paesi di Eurolandia sono passati dalla recessione alla depressione; per buon parte dell’anno gli operatori hanno puntato sulla frantumazione della moneta e ancora oggi il 30% degli investitori (all’ultimo sondaggio Axa) pensa che il rischio non sia scomparso.
L’euro è la moneta debole, in termini di Pil e delle sue istituzioni. Eppure nell’ultimo anno si è rafforzato del 5,5% sul dollaro e del 23% sullo yen. Oggi è una moneta di almeno il 20% più forte di quanto detterebbero i fondamentali di gran parte delle sue economie: non solo dell’Italia o della Spagna, anche del Belgio o della Francia. Per questo apparente controsenso esistono ovviamente ottime ragioni esterne. C’è certo la «guerra delle monete», di cui è tornato a parlare di recente un economista nato a Genova: Guido Mantega, 63 anni, emigrato a San Paolo e oggi ministro delle Finanze del Brasile. La Federal Reserve americana tiene i tassi ancorati allo zero e per ora continua a stampare e spendere molte decine di miliardi di dollari al mese. In Giappone, tornato premier, Shinzo Abe sta forzando la banca centrale a interventi sempre più pesanti per rendere lo yen più leggero e competitivo sui mercati esteri e creare un po’ d’inflazione. Tutti nel mondo vogliono monete più deboli per sostenere l’export e non tutti possono averle allo stesso tempo.
Ma se è sull’euro che queste tensioni si scaricano, è anche per motivi interni all’Europa. La promessa di Draghi in luglio di fare «qualunque cosa» per preservare la moneta — contro il parere della Bundesbank — ha segnato l’inizio della rivalutazione: in pochi mesi l’euro ha preso il 10% sul dollaro. Da allora però il presidente della Bce non ha più forzato, come per non aggravare ancora di più le tensioni con l’opinione pubblica e la banca centrale tedesca. Il mancato taglio dei tassi di quest’inverno si spiega anche così. In realtà, ieri l’euro è scivolato di colpo non appena si è visto che persino l’economia tedesca a fine 2012 è caduta. Ma per risolvere la prova di forza interna alla Bce, tanto per cambiare, servirà ben altro.