13.10.2011

In studio non si può conciliare

  • Italia Oggi

di Damiano Marinelli 

Lo Studio dell'avvocato italiano non potrà più ospitare sedi legali e rappresentanze locali di Organismi di mediazione. È quanto ha stabilito il Consiglio nazionale forense, apportando interessanti modifiche al Codice deontologico (art. 55-bis del codice deontologico).

Si deve inizialmente sottolineare come per la lettura del Cnf la funzione e l'attività dell'avvocato che decida di svolgere la funzione di mediatore rientrino pienamente nell'ambito dell'attività professionale in senso proprio (al contrario, le conseguenze non muterebbero alla luce della circostanza che pure l'attività extra professionale rileva deontologicamente se le modalità della sua realizzazione compromettano la reputazione professionale e l'immagine della classe forense).

L'art. 55-bis, testé introdotto (circolare Cnf C24/2011 del 27/9/2011), determina come l'avvocato che svolga la funzione di mediatore debba rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell'organismo di mediazione, ma nei limiti in cui dette previsioni non contrastino con quelle del codice deontologico.

Si rileva quindi come esista, per l'avvocato/mediatore, una priorità/prevalenza del codice deontologico dell'avvocato, rispetto al regolamento e al codice etico dell'Organismo di mediazione, dunque l'Avvocato rimane prima di tutto Avvocato anche nella sua funzione di mediatore.

L'avvocato non dovrà assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza (cioè capacità di dominare e padroneggiare le essenziali e imprescindibili tecniche di mediazione e garantire «che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l'accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio»).

Vengono posti poi dei limiti ulteriori (per il passato), l'avvocato non può assumere la funzione di mediatore quando:

a) abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti;

b) una delle parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti negli stessi locali.

Inoltre, per il futuro, l'avvocato che ha svolto l'incarico di mediatore non potrà intrattenere rapporti professionali con una delle parti:

a) se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento (il limite opera anche con riferimento a questioni interessate da procedimenti di mediazione ormai esauriti);

b) se l'oggetto dell'attività non sia diverso da quello del procedimento stesso.

Dunque l'avvocato non potrà seguire professionalmente alcuna parte presente alla mediazione per i due anni seguenti dalla definizione del procedimento (ovvero dalla data dell'ultima sessione di mediazione), e comunque mai potrà intrattenere rapporti con una delle parti se l'oggetto dell'attività esercitata non sia diverso da quello del procedimento stesso (con tutti i problemi che possono riguardare oggetti connessi o collegati al primo).

Inoltre, e questo potrà in pratica creare delle rilevanti difficoltà, il divieto di cui sopra si estende ai professionisti soci, associati ovvero che comunque esercitino negli stessi locali. Dunque, anche quando non è costituita una associazione professionale, ma solo una coabitazione professionale, i professionisti dello stesso Studio dovranno ben conoscere l'attività del collega avvocato/mediatore, per non incorrere in sanzioni disciplinari senza una vero e proprio comportamento attivo (canone simile per l'avvocato-arbitro).

Sempre l'articolo 55-bis, volendo tutelare anche l'apparenza della terzietà, fa divieto all'avvocato di consentire che l'Organismo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo Studio o che quest'ultimo abbia sede presso l'Organismo di mediazione. Dunque, contro una eventuale accaparramento e/o sviamento di clientela, sia l'avvocato non mediatore che concede in uso tutto o parte del proprio Studio legale (sia come referente locale dello stesso o, formalmente, senza titolo) o l'avvocato mediatore, contro in questo caso una eventuale commistione di interessi, che ugualmente concede in uso tutto o parte del proprio Studio Legale o anche l'avvocato che stabilisca la propria sede professionale presso la sede dell'Organismo di mediazione, sarà passibile di procedimento disciplinare da parte del proprio Ordine professionale.

Solo la prassi potrà determinare se tale canone introdotto sarà capace di favorire l'affermarsi più agevole nel mercato, e sul piano della concorrenza, di una figura di avvocato-mediatore che non si trovi ad essere penalizzata, rispetto anche ad altri soggetti professionali (es. commercialisti), da eccessivi vincoli di carattere deontologico, o, al contrario, l'avvocato mediatore si ritrovi ad avere ulteriori e propri limiti che delineeranno (rectius, limiteranno) la sua funzione di mediatore (mentre, allo stato, non si intravede da parte del Cnf una previsione di una figura professionale autonoma).

In definitiva, saranno poi le circostanze del caso concreto a consentire di modulare, in sede applicativa, la novella deontologica nella maniera più equilibrata e appropriata.

Infine, il Cnf non ha ritenuto, ad oggi, di intervenire sui profili deontologici dell'avvocato che assiste tecnicamente la parte nel procedimento di mediazione in quanto per tali profili vale l'applicazione delle attuali e vigenti regole deontologiche proprie dell'attività professionale in genere (in base all'art. 54 come modificato, l'avvocato deve ispirare il proprio rapporto con gli arbitri, conciliatori, mediatori e consulenti tecnici a correttezza e lealtà nel rispetto delle reciproche funzioni).