I distretti industriali italiani godono di buona salute, trainati soprattutto da alcuni poli di eccellenza e da una pronunciata propensione a esportare. È quanto emerge dalla quinta edizione del Rapporto annuale del Servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo in cui sono stati analizzati i bilanci aziendali degli ultimi quattro anni di oltre 13mila imprese appartenenti a 144 distretti industriali e di quasi 36mila aziende non-distrettuali.
Imprese distrettuali più dinamiche. Secondo l’indagine, i distretti nel biennio 2011-2012 hanno registrato un aumento del fatturato del 3%, facendo meglio delle aree non distrettuali (+1%).
Un trend positivo su cui ha inciso la più pronunciata propensione a esportare dei primi, che per questo sono stati premiati, visto il periodo di crescita della domanda mondiale e di debolezza di quella interna. Nel biennio appena trascorso, infatti, il pil mondiale è cresciuto del 5,2%, a fronte del calo in Italia dei consumi delle famiglie (-4%) e degli investimenti (-10,2%).
Restano, però, elevate le differenze tra singoli distretti. In particolare, il Rapporto individua anche gli 11 migliori che svettano per le loro buone performance dal punto di vista della crescita e delle condizioni reddituali: la gomma del Sebino Bergamasco; cinque aree di specializzazione nel sistema moda (l’occhialeria di Belluno, la pelletteria e le calzature di Firenze, la concia e le calzature di Santa Croce sull’Arno, il tessile di Biella, l’abbigliamento del Napoletano); tre distretti agro-alimentari (i vini di Langhe, Roero e Monferrato, il prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, i salumi di Parma); un polo del sistema casa (il marmo di Carrara) e uno della meccanica (le macchine per l’imballaggio di Bologna).
Le previsioni per il biennio 2013-2014. Nonostante la crisi, anche l’outlook per l’anno in corso è positivo (+1,1%), un risultato contenuto condizionato dalle attese di perdurante debolezza del mercato interno; mentre un balzo dell’attività produttiva è atteso per il 2014, quando il fatturato delle imprese distrettuali dovrebbe mostrare un aumento del 4%. Con migliori prospettive di crescita per la filiera metalmeccanica dovute a una lenta ripresa del ciclo degli investimenti destinati al potenziamento qualitativo e di efficienza del tessuto produttivo italiano e, soprattutto, all’elevata competitività di molti prodotti italiani sui mercati internazionali.
I punti di forza. Secondo il Rapporto a trainare la crescita dei distretti è in primo luogo la più elevata propensione sia a esportare sia a investire all’estero: circa il 41% esporta, mentre nelle aree non distrettuali questa quota è di molto inferiore e si colloca al 30%. Inoltre, il numero delle partecipate estere ogni 100 imprese è pari a 34 nei distretti, mentre nelle aree non distrettuali si ferma a 25.
In particolare, tra le aziende inserite in determinati cluster vi sono più investitori (8,9% delle imprese contro 7,1% per le aree non distrettuali). Ma questo aspetto non è il solo a contribuire al successo dei poli produttivi del Made in Italy: anche in termini di propensione all’innovazione tecnologica esiste un differenziale importante.
Il numero di domande di brevetto ogni 100 aziende è, infatti, pari a 45 nei distretti e a 32 nelle aree non-distrettuali. L’indagine osserva poi una maggiore propensione a registrare marchi a livello internazionale tra le imprese dei distretti, probabilmente a causa della più elevata presenza sui mercati esteri (circa 40 brand ogni 100 imprese mentre nei non distretti non superano i 21). Un risultato determinato secondo il Rapporto anche dalla prossimità territoriale che sembrerebbe aver favorito, grazie ai processi imitativi, una maggiore diffusione di strategie imprenditoriali vincenti.
Le criticità. Non è però tutto oro quel che luccica: la ricerca evidenzia anche alcune criticità con cui le filiere si trovano a fare i conti.
In primis, gli effetti della globalizzazione con la tentazione da parte delle imprese committenti di ricorrere a subfornitori localizzati in paesi a basso costo del lavoro.
La ricerca evidenzia, inoltre, che nel caso in cui i committenti abbiano iniziato a produrre direttamente all’estero, i subfornitori hanno trovato difficoltà a seguirli. Attraverso un’indagine sul campo effettuata in alcuni distretti dell’Emilia Romagna, si è poi cercato di capire se e quanto alcune competenze dell’impresa subfornitrice rendano strategico per il committente il mantenimento della relazione di fornitura a livello locale.
I risultati mostrano che i fornitori più innovativi e qualificati realizzano performance nettamente migliori e che i committenti anche in futuro intendono avvalersi di loro. Insomma i minori costi dei subfornitori esteri possono essere più che controbilanciati e produrre in Italia si può, a patto però di investire in conoscenza e in un’offerta di qualità che siano il più possibile diffusi.