Il rame non ha abbandonato quota 5mila dollari, restando vicino ai livelli di venerdì, quando si era spinto fino a 5.131 $ (base tre mesi), il massimo da oltre 4 mesi. A sostenerlo i dati sulle importazioni cinesi, salite in febbraio a 328.604 tonnellate, il 56% in più rispetto a un anno prima e l’1,5% in più rispetto a gennaio, nonostante il Capodanno lunare. Complessivamente nei primi due mesi dell’anno c’è stato un aumento del 27% sullo stesso periodo del 2015.
Dopo aver oscillato per alcuni giorni senza direzione, i prezzi Lme erano decollati giovedì scorso dopo il comunicato della Fed negli Usa, che annunciava due rialzi dei tassi d’interesse quest’anno, anziché quattro, come comunicato in dicembre.
A livello globale il mercato fisico del rame non è in tensione, ma paradossalmente lo è al Lme, dove le giacenze di catodi sono scese del 35% da fine gennaio, portandosi ad appena 155mila tonnellate (di cui 44mila già registrate per l’uscita), per cui c’è una stretta tecnica che provoca un crescente backwardation: il prezzo a pronti è arrivato a superare quello a tre mesi di oltre 30 $. Ciò in contrasto con quanto avviene a Shanghai, dove invece c’è da tempo un contango (prezzo lontano superiore al pronti) di 30 $ sul 3 mesi, a rispecchiare una situazione di sufficiente disponibilità: le giacenze di borsa Shfe, più che raddoppiate nel 2016, sono al record di 394.777 tonnellate.
Viste anche le continue forti importazioni cinesi, ci si chiede se il mondo abbia troppo o poco rame. In realtà sembrerebbe troppo: Bloomberg Intelligence stima che i produttori quest’anno immetteranno sul mercato il 22% di rame in più rispetto al 2011. Poiché la domanda non è aumentata nella stessa misura, la maggiore offerta, che si è andata accumulando, aiuterebbe a spiegare perché i prezzi in gennaio fossero crollati al minimo da sette anni.
Alcune grandi minerarie – tra cui Codelco, Bhp Billiton e Glencore – hanno annunciato tagli di produzione l’anno scorso, con qualche effetto rialzista sui prezzi. Ma quelle riduzioni si avviano ad essere compensate da incrementi di produzione annunciati ad esempio da Freeport-McMoRan, Grupo Mexico, Southern Copper, Rio Tinto e Antofagasta.
Un aumento dell’offerta di rame potrebbe essere facilmente assorbito se nel contempo la domanda crescesse a sufficienza. E da quando la crescita economica in Cina è andata rallentando è sorto il problema di dove vada a finire tutto il rame importato da Pechino. Ci sono due possibili spiegazioni: una riguarderebbe un effettivo maggior consumo, legato al loro modello di sviluppo economico, l’altra – per cui propende la maggioranza degli analisti – è che molto rame finirebbe nell’ombra di manovre finanziarie, utilizzato come collaterale per ottenere prestiti. Resta l’interrogativo, peraltro non risolto, sull’intensità dei consumi cinesi di rame: in base alle statistiche dell’International Copper Study Group, ogni milione di dollari di Pil in Cina richiede circa 1.000 kg di rame, contro 535 kg in Turchia, 232 kg in Giappone e 100 kg negli Usa.
Sul fronte delle previsioni permane intanto la cautela tra i produttori. La polacca Kghm, seconda raffineria europea, conferma di lavorare per ridurre ulteriormente i costi dopo le perdite del 2015, senza fare nessun accenno a tagli di produzione, aspettandosi per il 2016 un prezzo medio di 5.000 $, in discesa dai 5.495 $ del 2015.
Gianni Mattarelli