Sbeffeggiato dalla stampa locale per i goffi tentativi di sbarrare la strada al leader Usa (Abbott non solo non è un ambientalista, ma ha vinto le elezioni in Australia con una piattaforma che ha al primo punto l’abolizione della «carbon tax»), il padrone di casa ha dovuto alla fine chinare la testa: ha inserito nel comunicato finale del G20 l’impegno dei «grandi» della Terra a stabilire rapidamente (entro il prossimo marzo) ambiziosi obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di CO2, da far confluire poi nell’accordo di Parigi. Un’intesa che, si legge nel documento, dovrà assumere la forma di un protocollo o avere, comunque, una veste giuridicamente vincolante.
Adesso che Cina e Usa, i Paesi che inquinano di più, hanno preso impegni solenni, tutti gli altri non hanno più alibi, dice il presidente americano che vorrebbe chiudere il mandato alla Casa Bianca con l’accordo che gli sfuggì a Copenaghen nel 2009. Poi, cercando di esorcizzare la sconfitta elettorale del 4 novembre, Obama dichiara che in pochi giorni gli Stati Uniti si sono ripresi il loro ruolo guida: «Dall’ambiente alla lotta contro Ebola, tutto passa per la nostra iniziativa». E, già che ci sta, si appropria anche del giocattolo di Abbott: mentre il G20 vara un piano per la crescita vago e macchinoso, basato su un «collage» di ben 800 riforme o misure economiche che i governi si sono impegnati ad attuare a livello nazionale, Obama sentenzia che, da solo, il suo Paese ha creato più posti di lavoro aggiuntivi di tutte le altre nazioni avanzate messe insieme. Conclusione trionfale: «E’ questa la vera “leadership” americana».
In effetti se l’ambientalismo improvvisamente riscoperto da Obama scalda i cuori più del lavoro e dello sviluppo è anche per l’aridità burocratica dei documenti del G20 e i dubbi su numeri (una crescita aggiuntiva del 2,1% del Pil mondiale da realizzare entro il 2018) che non tengono pienamente conto del peggioramento della congiuntura e delle previsioni economiche.
Con tutti i suoi limiti, comunque, l’accordo del G20 un suo valore storico lo ha: è la prima volta che i «grandi» basano i loro impegni non solo su dichiarazioni generiche, ma anche su cifre vincolanti. E lo fanno non solo sulla crescita del Pil ma anche su obiettivi sociali come la riduzione degli ostacoli che frenano l’accesso delle donne al mercato del lavoro. Qui l’obiettivo è di ridurre questo «gap» del 25% entro il 2025.
Solo belle parole di un comunicato, certo, ma l’altra novità è che i governi accettano di assoggettarsi ai controlli di un’istituzione indipendente: il Fondo monetario internazionale. E il suo capo, Christine Lagarde, prende la cosa sul serio: «Faremo ispezioni Paese per Paese, valuteremo il grado di attuazione di ogni misura economica che i governi si sono impegnati ad adottare». Se succederà davvero (il se è d’obbligo, perché diverse nazioni non hanno nessuna voglia di cedere sovranità ai tecnici del FMI), questa grande istituzione multilaterale cambierà pelle: da istituto impegnato a garantire la credibilità e l’equilibrio dei conti pubblici dei Paesi membri, a promotore di piani d’investimento e riforme finalizzate alla creazione di lavoro.