In questa cornice, è importante stabilire chi ha la legittimità di fare cosa. Di base, l’Eurozona può mettere una serie di condizioni ai piani di aiuti finanziari che sostiene: in termini di controllo delle finanze pubbliche, affinché l’equilibrio dell’euro non venga sbilanciato, e in termini di riforme, affinché un Paese contribuisca in modo positivo e non da palla al piede alla creazione di ricchezza per l’intera area euro. La sua azione si ferma lì. Se poi la Grecia vota un partito, Syriza, che dice di volere cambiare tutto nel Paese — comprensibilmente, visto come è stato gestito anche dopo la caduta della dittatura dei colonnelli nel 1974 — quello è ovviamente un fatto dei greci. E ovviamente Syriza, che ha vinto le elezioni, ha la legittimità di fare i cambiamenti che ha promesso: se non destabilizzano il resto dell’Eurozona. Al momento, non sembra che questi limiti politici e di legittimità siano rispettati: ciò rischia di provocare conseguenze gravi.
Soprattutto, il governo di Atene dà l’impressione — qualche volta lo dichiara — di volere un regime change non solo in Grecia ma anche nel resto d’Europa, cioè l’abbandono delle politiche che 18 membri dell’Eurozona su 19 sostengono. In questo irritando non solo la Germania ma anche Irlanda, Portogallo e Spagna che gli impegni presi in Europa li hanno rispettati e li stanno rispettando e quei Paesi dell’Est europeo che sono più poveri (pro capite) della Grecia e non vorrebbero mettere a rischio il denaro di loro cittadini su progetti di aiuto non solidi. Sull’altro versante, non sempre c’è la percezione della portata della sfida politica aperta in Grecia dalle elezioni del 25 gennaio, che va dalla ricostruzione di un sistema fiscale capace di raccogliere le tasse alla creazione di un senso civico affievolito, dalla corruzione allo sradicamento della lottizzazione e del nepotismo prevalenti in una classe dirigente greca spesso irresponsabile.
Ci sono dunque due domande. È in grado Syriza di fare questo cambiamento nella cornice dell’Eurozona e senza assistenzialismi (altrimenti tutto va avanti come prima)? E come può l’Eurozona aiutarla a ricostruire il Paese? Senza definire questi confini, i negoziatori rimarranno su terreni diversi. A questo si aggiunge la questione Varoufakis.
Non è un mistero che tra il ministro delle Finanze greco e alcuni dei suoi colleghi dell’Eurogruppo la chimica non funzioni. Vale per il tedesco Wolfgang Schäuble, che più volte si è irritato per i modi a tratti arroganti di Varoufakis. Vale per lo spagnolo Luis de Guindos, che non ha intenzione di vanificare nel nome di Syriza gli sforzi di riforma fatti da Madrid. E vale per altri che non hanno apprezzato il Varoufakis che nelle riunioni fa l’economista e non il politico. Il rapporto del ministro ellenico con Mario Draghi, d’altra parte, è «formale» per sua ammissione. E indiscrezioni — solo indiscrezioni — dicono che lo stesso Tsipras non apprezzi fino in fondo i modi e la dialettica del suo ministro.
Oggi riprendono i negoziati a Bruxelles. Tutte queste tensioni saranno al lavoro.
PS. L’intervista pubblicata ieri dal Corriere a Varoufakis ha aperto la questione di un eventuale referendum che il governo ellenico potrebbe decidere di tenere se ricevesse risposte negative alle sue proposte di contratto per la crescita. Referendum sull’euro o no? Ogni referendum indetto in Grecia come reazione a un no di Bruxelles sarebbe un referendum su euro sì/euro no. Qualsiasi nome gli si volesse dare. Lo sa il governo di Atene e lo sa il ministro Varoufakis.