L’utilizzo di fatture che attestano operazioni non realmente effettuate costituisce sempre frode fiscale. Non rileva il fatto che la falsità dei documenti sia ideologica o materiale. La sanzione penale da applicare è quindi quella prevista dall’articolo 2 del dlgs n. 74/2000 e non quella di cui all’articolo 3 (frode mediante altri artifici). A stabilirlo è stata ieri la Corte di cassazione con la sentenza n. 6360/19.La vicenda vedeva un imprenditore ricorrere contro una condanna a un anno e due mesi di reclusione per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture «fatte in casa», relative a costi mai sostenuti. Gli oneri fittizi portati in deduzione ammontavano a 103 mila euro.
Davanti alla suprema corte il contribuente eccepiva che le fatture presentavano un falso materiale, in quanto autoprodotte, e non ideologico (ossia fatture vere quanto a provenienza, ma non nel contenuto, più insidiose e quindi ritenute più gravi). A fronte di questa interpretazione, secondo la difesa dell’imprenditore doveva essere applicato l’articolo 3 del dlgs n. 74/2000, che prevede tra l’altro una soglia di punibilità, e non l’articolo 2.
La tesi viene però respinta dagli ermellini, secondo cui, dopo le modifiche operate dal dlgs n. 158/2015, «il profilo distintivo tra le fattispecie di cui agli articoli 2 e 3 è rimasto quello non dell’operazione compiuta, ma del modo in cui è documentata, rilevando dunque la natura dello strumento usato per commettere la dichiarazione fraudolente». Ogni volta che viene manomessa una fattura o un altro documento avente valenza fiscale, quindi, il reato è quello di cui all’articolo 2, «essendo indifferente in tal senso che la falsificazione sia di tipo ideologico o materiale».