Jean Pierre Mustier è riuscito nella sfida: l’amministratore delegato di Unicredit ha convinto i soci a versare ben 13 miliardi per rinforzare il gruppo di Piazza Aulenti, ripulirne il bilancio da 17 miliardi di vecchi crediti in sofferenza (i progetti «Fino» e «Porto», con Pimco e Fortress) e dargli carburante per recuperare redditività.
Le sottoscrizioni — al prezzo di 8,09 euro per azione, offerte con uno sconto del 38% — sono state pari al 99,8%, decretando il tutto esaurito per la maggiore ricapitalizzazione mai effettuata in Italia. I pochi diritti inoptati saranno offerti in Borsa fino al 6 marzo ma con ogni probabilità si chiuderà prima.
In questo modo Mustier rientra nei livelli patrimoniali che solo temporaneamente erano stati abbandonati (con l’indice tier1 sceso all’8% da oltre il 10%) dopo le maxi-svalutazioni per circa 13 miliardi che hanno portato a un rosso sul 2016 di 11,8 miliardi. Il livello patrimoniale si attesta sopra l’11% e la banca potrà pagare senza patemi la cedola sui bond Tier 1 a metà marzo.
Ora il banchiere francese dovrà realizzare il piano industriale di «trasformazione» della banca da qui al 2019 nel global banking e nella digitalizzazione. Ha già raggiunto accordi sindacali per l’uscita di 14 mila dipendenti (su quasi 100 mila totali) e ha venduto Pioneer e quote di Fineco e della polacca Pekao. Il tutto per rispettare la promessa di un ritorno superiore al 9%, sulla base della quale ha incassato la fiducia dei tanti fondi istituzionali che costituiscono gran parte dell’azionariato della banca. Ma anche il rialzo del titolo di quasi il 40% dal suo arrivo, lo scorso luglio, al varo dell’aumento del 6 febbraio, ha contribuito a sostenere lo sforzo di un’operazione a forte sconto. Anche ieri il Unicredit ha chiuso a +1,14%. Ma una mano l’ha data anche il consorzio di ben 30 banche, guidato da Morgan Stanley e Ubs (advisor) con Bofa ML, Jp Morgan e Mediobanca (global coordinator), Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs e Hsbc (co-global coordinator), cui vanno oltre 400 milioni di commissioni.
Confermano le posizioni i grandi soci: il fondo americano Capital Research al 6,7%, il fondo sovrano di Abu Dhabi, Aabar, al 5,04%. Diverso il caso dei soci storici italiani: le Fondazioni — un po’ per l’entità dello sforzo, un po’ per rispettare il limite del 33% nell’investimento bancario — hanno fatto un passo indietro. Cariverona scende dal 2,3% all’1,8%, la torinese Crt dal 2,2% all’1,7%; la Fondazione Cr Modena arretra allo 0,50% e una quota frazionale l’avrà la Fondazione Monte di Bologna e Ravenna. Dovrebbero aver sottoscritto anche i «privati» come Del Vecchio o Caltagirone. La compagine italiana resta dunque rilevante ma avrà un peso più limitato nella governance. Nel 2018 si rinnoverà il board, che scenderà da 17 a 15 membri e da tre a un solo vicepresidente, oggi tutti italiani.
Fabrizio Massaro