Ci sono voluti tredici anni, ma poco prima delle 13 di ieri (ora locale del Kazakhstan) il primo petrolio dal giacimento marino di Kashagan targato Eni ha iniziato a scorrere. Kashagan è la più grande scoperta petrolifera degli ultimi trent’anni, ma è stata anche la più difficile da mettere in produzione: basti pensare che nel settore nord del mar Caspio le temperature variano da più a meno quaranta gradi, e che la concentrazione di acido solfidrico che fuoriesce dai pozzi (il 15%) può essere addirittura letale. Gli interessi in gioco, in questi anni, sono stati tanti: quelli della repubblica kazaka di Nursultan Nazarbayev, che punta a diventare una potenza petrolifera mondiale; quelli delle maggiori compagnie del mondo (Exxon e Shell), socie ma di certo non amiche dell’Eni, visto che a più riprese hanno cercato di soffiare agli italiani la conduzione del progetto; quelli, infine, degli ingombranti vicini, Russia e Cina: solo pochi giorni fa la Repubblica Popolare cinese è riuscita a inserirsi nei giochi, convincendo il governo di Astana a cedere alla statale PetroChina l’8,33% del giacimento.
Tanti interessi e tante difficoltà, ma anche parecchia soddisfazione tra gli uomini Eni, che sono riusciti a portare a casa il risultato malgrado gli ostacoli ingegneristici, ambientali e «geopolitici»: ieri i primi 5 pozzi collegati all’isola artificiale costruita sul Caspio hanno prodotto 28 mila barili. Si salirà entro la primavera a 180 mila barili al giorno per arrivare, tra fine 2014 e inizio 2015, a 370 mila. Di questi, 60 mila saranno appannaggio del Cane a sei zampe, come quota parte del suo 16,8% (stessa percentuale di Exxon, Shell, la kazaka Kazmuniagaz e Total; con l’8,3% seguono poi i cinesi di Cnpc e i giapponesi di Inpex).
Per dare un’idea delle risorse messe in campo si possono ricordare i 46 miliardi di dollari investiti (7 miliardi dall’Eni) per la sola «fase 1», che si concluderà, appunto, a inizio 2015. I soci dovranno poi decidere che fare se vorranno spremere da Kashagan tutti o quasi tutti i 35 miliardi di barili che contiene. C’è chi sostiene che si potrebbe arrivare a un milione e mezzo di barili al giorno, un affare gigantesco se si pensa che il costo dell’investimento stimato per barile si aggira sui 12 dollari, e oggi un barile di brent ne vale circa 110.
Ma non sarà più l’Eni a occuparsi in prima persona dello sviluppo, visto che in futuro la guida delle operazioni sarà condivisa. Il gruppo italiano, assicura il direttore generale per l’esplorazione e la produzione, Claudio Descalzi, metterà a frutto l’esperienza accumulata («unica al mondo») negli altri scacchieri in cui opera. Si tratterà di una sorta di «dividendo» dell’impegno profuso nel giacimento che risale ai tempi di Vittorio Mincato e che in tempi più recenti fu difeso dall’ex direttore generale Stefano Cao, fino alle sue dimissioni del 2008. E non è un caso se il prossimo appuntamento che attende l’Eni è quello di Goliat, nel certo non facile mare Artico di Norvegia.
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Il Corriere della Sera
12/09/13
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