La spinta politica decisiva è arrivata da Barack Obama. Il presidente degli Stati Uniti ha puntato inizialmente a consolidare l’asse economico con il Giappone e poi a raccogliere, via via gli altri partner. Una scelta geopolitica con due obiettivi. Primo: ampliare o consolidare i mercati di sbocco per le merci americane, offrendo nello stesso tempo una sponda alla crescita dei vecchi e nuovi alleati, dal Messico al Vietnam. Secondo: contenere la crescita tumultuosa della Cina, che per anni si è mossa senza preoccuparsi troppo delle regole base in materia di lavoro, di ambiente, di sicurezza dei prodotti.
L’impianto del protocollo è molto complesso: non per niente ci sono voluti quasi sei anni di negoziato per trovare il punto di compromesso. Il testo prevede, innanzitutto, la revisione di circa 18 mila tariffe, cioè la tassa sulle importazioni. Molte saranno abolite immediatamente, una volta che il Trattato sarà ratificato da tutti i soci. Per esempio quelle sulle manifatture o i prodotti agricoli americane. Altre verranno cancellate gradualmente, come le tariffe su tessile e abbigliamento.
È chiaro che per le aziende europee, comprese quelle italiane, sarà più difficile penetrare su mercati tra loro più omogenei e, nello stesso tempo, chiusi verso l’esterno.
La firma di Auckland ha suscitato reazioni politiche contrastanti. Un po’ a sorpresa il ministero del Commercio cinese fa sapere in un comunicato ufficiale: “il Tpp è un accordo esaustivo, la Cina lo sta studiando e valutando”. Da Pechino, dunque, un segnale di attenzione e di apertura.
Le maggiori difficoltà, invece, le avrà proprio Obama. Il presidente commenta: “Messa in modo semplice: il Tpp rafforzerà la nostra leadership all’estero e sosterrà lavori di qualità a casa nostra”. Secondo l’amministrazione di Washington, il Prodotto interno lordo americano crescerà di circa 130 miliardi di dollari all’anno. Un numero citato dai movimenti “no Tpp”, che ieri hanno manifestato ad Auckland, per dimostrare come il Trattato sia una trappola che favorisce solo le multinazionali americane.
Ma i repubblicani che dominano il Congresso repubblicano non hanno fretta. Nessuno di loro vuole consentire a Obama di raggiungere in tempi brevi questo risultato. Forse se ne parlerà dopo le presidenziali di novembre. Senza contare che anche sul fronte dei democratici i critici sono molti, a cominciare dal candidato Bernie Sanders e, in parte, anche Hillary Clinton.