Nei numeri del terzo Rapporto sulla coesione sociale di Istat, Inps e ministero del Lavoro c’è la fotografia di un’Italia affaticata che combatte con tenacia la crisi e le difficoltà che questi anni claudicanti si portano dietro ma che non sa fronteggiare dati impietosi: il “rischio povertà” è cresciuto dal 26,3% del 2010 al 29,9% del 2011. Ed è la variazione negativa (3,3 punti) più elevata tra i Paesi Ue.
Coesione sociale.Stat, il database con le statistiche di Inps, Istat e ministero, elabora più di 700 indicatori su demografia, lavoro, capitale umano, povertà, salute, politiche di protezione e assicurazione sociale, politiche attive sul mercato del lavoro, e organizza il materiale in tre sezioni: contesto socio-economico; famiglia e coesione sociale; spesa e interventi per la coesione sociale. Lo studio distingue fra la soglia di povertà assoluta (la spesa minima per beni e servizi: il dato varia per regione, comune, numero di compententi, ad esempio per una famiglia del Nord di due persone è di 962 euro) e quella di povertà relativa (per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media pro capite nel Paese, al netto delle spese per le case, di premi per assicurazioni vita, rendite vitalizie, mutui e prestiti). Entrambi gli indicatori mostrano un’Italia che sta peggio di qualche anno fa.
La povertà relativa
Nel nostro Paese ci sono 2,782 milioni di famiglie in condizione di povertà relativa (11,1% del totale delle famiglie) per 8,173 milioni di italiani poveri.
In generale, l’incidenza di povertà relativa fra gli adulti di 18-64 anni è del 12,7% su base nazionale, con un picco più che doppio al Sud, e con un trend che dal 2005 a oggi è andato sempre peggiorando: al Nord era povero il 4,2% degli adulti, oggi lo è il 5,2% (con Bolzano nelle condizioni meno drammatiche: solo il 2,1% in difficoltà); al Centro si è passati dal 5,6% di sette anni fa al 7,2%; al Sud si è andati dal 24,5% del 2005 al 25,7% di oggi (con la Sicilia nelle condizioni peggiori: 30,9%).
Se si fa la medesima analisi sulle persone che hanno più di 65 anni, i dati sono altrettanto impietosi e preoccupanti. Il 12,8% degli italiani over65 vive in una condizione di povertà relativa (dato però che va scendendo dal 15,6% del 2004 al 13% del 2010 fino al 12,8% del 2011). La ripartizione geografica segna sempre un netto contrasto fra il Nord (6,7% di poveri), il Centro (8,1%) e il Sud Italia (24,9%).
La povertà assoluta
Anche questa voce è in crescita negli ultimi anni perché la crisi sta lasciando tasche vuote e madie piene di bisogni. Dal 3,5% di adulti (18-64 anni) in situazioni di povertà assoluta nel 2005 al 5,3% del 2011 (con Nord e Centro al 3,5% e il Sud all’8,6%). Come anche per l’indicatore precedente, il dato è più “pesante” nella fascia d’età degli ultra 65enni, persone più vulnerabili e più bisognose di cure e attenzioni: quasi sei italiani su cento non hanno di che vivere (sono più di sette ogni cento al Sud). I dati fotografano meglio di qualsiasi discorso un’Italia sfilacciata ma, scrivono Enrico Giovannini (presidente Istat) e Antonio Mastrapasqua (presidente Inps), nella prefazione: «La conoscenza dei numeri può tornare utile, proprio nell’attuale congiuntura istituzionale, economica e sociale per definire e caratterizzare nuove politiche, nonché per provare a valutare gli effetti degli interventi messi in campo in Italia per sostenere la coesione sociale».
Un labile sostegno
Nel Rapporto Istat, Inps, ministero, vi è anche un’analisi per Paese dell’Unione e per tipo di prestazione che viene erogata ai cittadini. Ogni italiano, fra malattia, invalidità, famiglia, vecchiaia, disoccupazione, casa e spese amministrative, costa poco più di 7.200 euro, al di sotto della media Ue15 (7.880 euro) e ancora più lontano dai sostegni dei principali competitor europei (Germania e Francia con 8.500 euro, Regno Unito con 7.500 euro).