I passi sono stati da gigante: le banche italiane hanno più che dimezzato i crediti deteriorati nei loro bilanci in soli quattro anni, arrivando a detenerne 159 miliardi di euro a settembre 2019 e probabilmente 145 a fine anno. Ma, sebbene da gigante, questi passi non bastano ancora: l’Italia resta infatti lontana dalla media europea e dagli obiettivi fissati per il 2021 dalla Bce in materia di crediti deteriorati. È questo uno dei messaggi lanciati dall’osservatorio Npl di Banca Ifis, pubblicato ieri: la pulizia dei bilanci è stata consistente, ma non è ancora finita.
I dati raccolti da Banca Ifis parlano chiaro. A fine 2019 (i bilanci non ci sono ancora per cui si tratta di previsioni) lo stock di crediti deteriorati lordi (Npe) nella pancia delle banche italiane era di 145 miliardi: si tratta del 7,7% del totale crediti. Livello ben minore rispetto al 17% toccato nel 2015, ma ancora decisamente sopra la media europea (3%) e sopra l’obiettivo fissato dalla Bce al 5% per il 2021. La cura dimagrante continuerà (Banca Ifis prevede a fine 2020 121 miliardi di crediti deteriorati nei bilanci bancari, pari al 6,5% del totale crediti), ma difficilmente l’Italia riuscirà a soddisfare la richiesta della Bce.
Questa pulizia è stata fatta dalle banche vendendo a operatori specializzato i loro crediti andati a male: anche nel 2019 sono stati ceduti dal sistema creditizio italiano 32 miliardi di crediti in sofferenza ai quali si sono aggiunti 6 miliari di crediti semi-deteriorati (quelli chiamati in gergo Utp, inadempienze probabili). E nel 2020 Ifis prevede altri 37 miliardi di sofferenze sul mercato (incluso il secondario, dunque le rivendite di seconda mano da parte degli operatori), più 7 miliardi di Utp.
Questo però è il punto dolente: la pulizia dei bilanci bancari è avvenuta attraverso la vendita dei crediti deteriorati agli operatori specializzati, non attraverso il recupero dei crediti e la chiusura del contenzioso con famiglie e imprese. Questo significa che le banche sono più “leggere”, ma nell’economia italiana resta un totale di 325 miliardi di euro di crediti deteriorati da smaltire: una zavorra che pesa sull’economia, pesa sui tribunali, pesa – appunto – su famiglie e imprese. Insomma: il fardello è stato spostato dalle banche ad altri soggetti, ma il problema non è stato risolto. Questo è un tema da non dimenticare. E, tra l’altro, si tratta di un fardello che cresce, dato che i recuperi dei crediti ammontano al 3,1-3,2% l’anno, mentre i flussi di crediti deteriorati sono maggiori.
L’altro punto dolente riguarda gli Utp: il tasso di deterioramento di questi crediti (dunque il loro passaggio a sofferenza) resta ben più elevato rispetto al periodo pre-crisi: nel 2019 Ifis prevede che 18 miliardi di Utp diventino crediti in sofferenza. E questo deterioramento è causato soprattutto dal settore costruzioni. Detto questo, però, è innegabile che le banche italiane abbiano fatto un grande sforzo per ripulire i bilanci. Ora tocca agli operatori specializzati, i cosiddetti servicer, smaltire questa massa enorme di Npl. E pulire, dopo le banche, anche l’economia del Paese.