A qualche mese dalla medesima indagine, condotta in estate, il risultato non cambia: a dirsi favorevole all’entrata in vigore di una normativa Ue per un’equa remunerazione di autori e artisti da parte dei giganti del tech sono l’85% degli italiani e l’80% degli europei. C’era qualche punto percentuale in meno rispetto al sondaggio chiuso lo scorso agosto: 4 per i rispondenti italiani e 7 per quelli europei. Ma ha pur sempre i contorni del risultato plebiscitario quello che emerge dall’indagine «Copyright & Us Tech Giants» effettuata online da Harris Interactive e commissionata da «Europe for Creators» – cittadini, creativi e quasi 250 organizzazioni – e da Gesac (l’insieme delle Siae europee) a sostegno della riforma del Copyright Ue.
Il sondaggio è stato condotto fra il 15 e il 22 febbraio su 6.600 cittadini europei sopra i 18 anni, di cui 800 italiani. I risultati piombano nel bel mezzo della volata finale della riforma che dovrà regolamentare il diritto d’autore in Europa ai tempi del digitale, attesa al voto degli europarlamentari del 26-27 marzo dopo che il 13 febbraio Parlamento Ue, Commissione e Consiglio hanno trovato un accordo politico definitivo. Poi anche il Consiglio dovrà dare il suo benestare. E non sarà una passeggiata, come non lo è stata finora, con pressioni fortissime e contrapposizione frontale fra produttori di contenuti (favorevoli) e piattaforme (contrari).
A far da detonatore gli articoli 11 e 13 del testo. Il primo prevede per le piattaforme l’obbligo di pagare gli editori per la pubblicazione degli snippet: frammenti di articoli caricati sul web con link al sito principale della notizia. L’articolo 13 richiede invece a piattaforme di largo utilizzo (YouTube o Instagram ad esempio) di prendere misure appropriate che impediscano di caricare materiale protetto da copyright.
La scorsa settimana 19 associazioni rappresentative dell’intera industria culturale e creativa italiana, fra cui Confindustria Cultura, Aie, Fimi, hanno inviato un appello agli europarlamentari per il sì alla riforma. Un post del 3 marzo sul blog Google, a firma di Kent Walker, Svp Global Affairs, parla invece di «un passo avanti e due indietro» con miglioramenti rispetto al testo originario, ma aspetti valutati come critici sia sull’articolo 13 (ad esempio la non chiarezza sui requisiti in base ai quali i titolari dei diritti sarebbero tenuti a collaborare per identificare i rispettivi contenuti) sia per l’articolo 11 («danneggia gli editori piccoli ed emergenti»).
«Porto avanti la mia battaglia a difesa del diritto d’autore con tutte le mie forze», dice al Sole 24 Ore il presidente Siae, Giulio Rapetti Mogol. Appena nominato presidente Siae, Mogol è subito volato a Strasburgo, dove all’indomani si sarebbe tenuto il voto sulla direttiva copyright: «Volevo fare un’azione plateale e così ho fatto. Avevo con me cartelloni in cui era scritto: voi avete i miliardi, noi le ragioni». Da allora Mogol è stata una delle voci più decise a favore della riforma Ue.
Il sondaggio non fa che aumentarne la convinzione. «Il diritto d’autore è il diritto che garantisce agli autori la possibilità di vivere dei frutti dell’attività creativa. Ci sono 20mila giovani creativi che guadagnano meno di mille euro al mese e pagano le tasse fino all’ultimo». A questo punto, dice Mogol, «vorrei capire perché, come Siae, chiediamo un contributo minimo anche alle parrocchie e dovremmo essere disposti a non avere la giusta remunerazione da chi fa profitti per miliardi sulle spalle dell’industria creativa». Per Mogol, poi, «non è accettabile» quando si indica come soluzione la deindicizzazione come possibilità per gli editori e all’industria creativa. «Dico solo – replica – che è in atto un’azione di lobbying fortissima e pericolosissima. Senza diritto d’autore la cultura muore».
Andrea Biondi