27.04.2017

«Coinvolgere la Cassa depositi, poi intesa con un socio europeo»

  • Il Corriere della Sera

Susanna Camusso nel suo ufficio al quarto piano di Corso Italia è serena. Preoccupata per la situazione di Alitalia, ma serena come segretaria generale della Cgil.

Scusi ma non avete perso? I lavoratori hanno bocciato il pre accordo.

«No, sapevamo che il risultato del referendum era ad altissimo rischio. E l’avevamo detto a tutti e in tutti i modi».

Ma allora perché avete firmato la pre intesa con l’azienda?

«Perché, nelle condizioni date, non era possibile ottenere di più. E non volevamo rassegnarci a vedere gli aerei Alitalia a terra e la compagnia in liquidazione. Abbiamo provato a ridarle una prospettiva».

E adesso?

«Mi pare miope il ragionamento del governo che dice: è un’azienda privata, ha vinto il no, si chiude e buonanotte».

Lei vuole la nazionalizzazione di Alitalia?

«No. La nazionalizzazione non mi pare una buona idea. Invece mi chiedo perché il governo debba dare un prestito ponte finalizzato allo spezzatino e alla liquidazione e non utilizzare invece le risorse pubbliche per un progetto di rilancio».

Come?

«Coinvolgendo Cassa depositi e prestiti, che potrebbe indirizzare Alitalia verso una acquisizione da parte di una compagnia europea che ne salvaguardi il futuro».

Lei ha parlato di un’acquisizione europea, ma i sindacati nel 2007 si misero di traverso ad Air France. Una scelta sbagliata, secondo molti.

«Niente affatto. Eravamo contrari ad Air France perché non avrebbe dato una prospettiva di sviluppo ad Alitalia, ma lavorammo per una soluzione migliore: Lufthansa. E non ho mai capito perché il governo non andò avanti su quella strada».

Oggi ripartirebbe da lì?

«Se fosse possibile, sì».

Ma nel caso, tutto da verificare, di un interessamento della tedesca Lufthansa, i lavoratori, secondo lei, accetterebbero quei sacrifici che ora hanno respinto?

«Cominciamo col dire che se il ministro Calenda insiste col dire che il futuro di Alitalia è la liquidazione, non si va da nessuna parte. Se invece si entrasse nella logica di costruire una soluzione di rilancio, le cose cambierebbero. Nella vittoria del no ha pesato la sfiducia verso il management Alitalia. I lavoratori hanno pensato che, come al solito, sarebbero stati loro a pagare e poi si sarebbe tornati al punto di partenza. In presenza, invece, di una prospettiva credibile cambierebbero anche le valutazioni».

Non trova curioso proporre, dopo il no dei lavoratori a un piano che prevedeva nuovo capitale da parte degli azionisti privati per un miliardo, che i soldi ce li mettano i contribuenti?

«Oggi i soldi dei contribuenti vengono usati perfino per sostenere le low cost. Quanto ad Alitalia, non possiamo far finta che non ci siano 20 mila posti di lavoro in gioco e il futuro di una compagnia che ha un peso sull’economia italiana».

Secondo questa logica, i lavoratori hanno fatto bene a respingere l’accordo.

«No. Noi pensavamo che si dovesse provare ad andare avanti. Ma ora non possiamo dire: non avete votato come volevamo, andate tutti a quel paese».

Non crede che il referendum sia stato un errore? Se avevate raggiunto il massimo, perché non vi siete assunti la responsabilità di chiudere l’intesa? Non devono fare così dei leader in una democrazia delegata? Oppure avete scelto il modello della democrazia diretta?

«Abbiamo sempre pensato che i lavoratori si debbano esprimere quando cambiano le loro condizioni. Noi li rappresentiamo, ma non ci hanno dato una delega di vita o di morte. Inoltre, tutti i giorni diciamo che i lavoratori devono partecipare di più all’azienda, ora come si può pensare di rilanciare Alitalia senza coinvolgere i dipendenti?».

Giavazzi e Alesina hanno scritto sul Corriere della Sera che il referendum è come un ricatto alla collettività, perché 10 mila persone possono respingere i sacrifici per loro previsti trasferendone l’onere su tutti i contribuenti.

«Ma sono gli azionisti che hanno deciso di condizionare il piano al consenso dei lavoratori! In ogni caso, è poco democratico pensare che il voto sia opportuno solo quando conviene, così come dare letture distorte delle scelte dei lavoratori. Seguendo questa logica, potrei arrivare a dire che si è trattato di un voto contro il governo, visto che per il sì si sono spesi Gentiloni e tre ministri».

Il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, dice: spero che non finisca come in Almaviva, dove il call center di Roma ha chiuso mentre a Napoli si continua a lavorare dopo l’accordo con l’azienda.

«Osservo che entrambi i casi sono gestiti dal ministro, che si distingue per dare al sindacato le colpe e che nella vicenda Almaviva ha avallato una procedura di licenziamento collettivo per 1.600 persone. E ora, vista la scioltezza con la quale parla di spezzatino e liquidazione, rischia di combinare nuovi guai».

Nel mondo di oggi, secondo lei, l’Italia può andare avanti anche senza Alitalia, purché il servizio ci sia, o esso deve essere per forza svolto sotto il marchio tricolore?

«Alitalia non è più da tempo la compagnia di bandiera, ma il suo marchio ancora viene identificato col nostro Paese. Per questo penso che sia importante evitare lo spezzatino e trovare un partner europeo capace di valorizzare la lunga storia di Alitalia e le grandi professionalità dei lavoratori».

Enrico Marro