18.05.2018

BTp Italia, un conto extra da 92 milioni

  • Il Sole 24 Ore

La 13esima emissione del BTp Italia si è chiusa con una raccolta complessiva di 7,7 miliardi. È andata meglio rispetto al precedente collocamento (novembre) del titolo indicizzato all’inflazione italiana quando la domanda era stata pari a 7,1 miliardi. Più nel dettaglio, nel corso della prima fase del collocamento (dal 14 al 16 maggio) dedicata al retail sono stati conclusi 62.728 contratti per un controvalore pari a 4,056 miliardi. Nella seconda fase dedicata a investitori istituzionali (ieri dalle 9 alle 11) il numero delle proposte di adesione pervenute ed eseguite è stato pari a 286, per un controvalore emesso pari a 3,652 miliardi. Una domanda che il Tesoro ha valutato come «molto buona» per quanto riguarda il retail e «soddisfacente, considerata la fase di mercato» con riferimento agli istituzionali.
Non che sia stato un collocamento semplice. Perché mercoledì (il terzo e ultimo giorno riservato alle richieste del pubblico retail) sul mercato secondario italiano è tornata un po’ di tensione, dopo che sono iniziate a circolare le prime bozze (in parte smentite) sul contratto di governo elaborato da Lega e Movimento 5 Stelle. Alcuni riferimenti anti-europeisti hanno preoccupato gli investitori alimentando la speculazione sul debito pubblico, nonostante sia ancora “coperto” dal quantitative easing della Banca centrale europea (al momento fino a settembre).
Per tutta risposta i rendimenti sono balzati su tutte le scadenze: il BTp a 10 anni è salito ampiamente sopra il 2% mentre quello a 8 anni (la stessa durata del BTp Italia) si è portato a ridosso dell’1,7%, 35 punti base in più rispetto a una settimana prima e oltre 20 punti rispetto all’11 maggio, quando il Tesoro ha comunicato per il nuovo BTp un tasso minimo reale dello 0,4%. La turbolenza sul mercato secondario però potrebbe, numeri alla mano, aver causato qualche effetto collaterale frenando il pubblico retail nell’ultimo giorno. Se infatti la domanda dei piccoli risparmiatori nelle prime due sedute è stata pari a 3,3 miliardi, nel terzo giorno (proprio mentre sul secondario si intensificavano le vendite sui titoli di Stato impennandone i rendimenti) le richieste sono calate a 333 milioni.
Nella stessa serata però il Tesoro ha emesso un comunicato aprendo difatti alla possibilità di un ritocco all’insù del tasso minimo reale, indicando che quello definitivo «sarà determinato sulla base delle condizioni di mercato». Una rassicurazione per gli investitori istituzionali che il giorno successivo (cioè ieri) si sono presentati all’appuntamento con richieste per oltre 3,6 miliardi. E infatti così è stato: perché il Tesoro al termine dell’emissione ha alzato di 15 punti base il tasso minimo reale (a cui aggiungere poi di volta in volta l’inflazione italiana per arrivare al tasso finale nominale) portandolo allo 0,55%.
Prima di ieri il Tesoro aveva alzato in due occasioni il tasso reale, in occasione del BTp Italia numero uno (marzo 2012 da 2,25% a 2,45%) e numero sette (ottobre 2014 da 1,15% a 1,25%). I 15 punti base in più di ieri – che certo tutelano i risparmiatori perché adeguano il BTp Italia alle mutate condizioni di mercato delle ultime sedute – costeranno però alle casse dello Stato (e indirettamente ai contribuenti) circa 92 milioni. Un prezzo che diviso per ogni cittadino italiano equivarrebbe a un caffè o poco più per ciascuno, ma che va oltre questo mero significato statistico, perché potrebbe rappresentare un esempio (per ora limitato) di ciò che potrebbe accadere nel caso di un prolungato braccio di ferro fra i mercati e il futuro Governo italiano.
La buona notizia, sotto questo aspetto, è che la gestione attenta del debito da parte del Tesoro e soprattutto l’abbattimento dei tassi di interesse favorito dalle politiche monetarie ultra-espansive di quella Bce spesso additata dai nostri politici potrebbe metterci al riparo da eccessivi rischi, impedendo un avvitamento al rialzo del costo del debito anche in caso di comportamento particolarmente avverso dei mercati. A confermarlo sono gli analisti di UniCredit Research, in una sorta di «stress test» al nostro debito sulla base dei diversi scenari ipotizzabili da qui a fine anno e per il 2019.
In questo primo scorcio del 2018 l’Italia si è finanziata sui mercati a un tasso medio molto ridotto (0,68% e 1,23% se si considerano solo i titoli a medio-lungo termine), condizioni ancora estremamente favorevoli che potrebbero mutare nei prossimi mesi, ma senza conseguenze drammatiche. «Anche se si verificasse un incremento aggressivo dei rendimenti del BTp per il resto di questo anno – assicura infatti Chiara Cremonesi, strategist sul reddito fisso di UniCredit – il costo di finanziamento dovrebbe mantenersi inferiore all’1% contribuendo a un’ulteriore riduzione del costo complessivo del debito italiano».
In questo modo l’Italia sarebbe in grado di sostituire i titoli che giungono via via a scadenza con altri di rendimento inferiore e di ridurre così il costo del debito a medio-lungo termine (che al momento staziona al di sotto del 3%, in discesa dal 4% del 2012) quest’anno e presumibilmente anche il prossimo. Annullare la dote acquisita soprattutto in virtù delle politiche monetarie favorevoli attuate negli ultimi anni sarà per fortuna complicato.