I colloqui tra i vertici delle due banche e i rispettivi advisor sono fitti da tempo. Il progetto del resto non è nuovo, visto che sarebbe la riedizione di quella fusione tentata nel 2007 ma poi bocciata a sorpresa dall’assemblea dei soci di Piazza Meda. A Modena quel “no” sull’altare brucia ancora, ma questa volta le cose potrebbero essere ben diverse. Il pressing del Mef e della Vigilanza per una razionalizzazione del sistema è netto. E in più, questa volta, c’è la novità dell’obbligo di trasformazione delle popolari in Spa imposto dalla riforma Renzi-Padoan, elemento che agevola le fusioni tra pari. La fusione avrebbe un senso industriale, vista la complementarietà dei due bacini di riferimento. Senza contare che entrambe le banche godono di una buona solidità sia sotto il profilo patrimoniale, dei rischi (entrambe risultano in classe 3 secondo la classificazione preliminare della Bce post-Srep) e della redditività. Bpm e Bper rappresentano rispettivamente la terza e quarta banca popolare italiana per asset alle spalle del Banco e Ubi, e insieme darebbero origine a un colosso da oltre 110 miliardi di attivi.
Tuttavia il progetto appare tutt’altro che semplice, sia in termini di equilibri di governance che operativi. Da verificare sarebbe ad esempio la definizione dei futuri ruoli dei due a.d., Giuseppe Castagna e Alessandro Vandelli, entrambi in rampa di lancio e apprezzati per il lavoro fatto sui relativi istituti.
Nulla esclude, peraltro, che una volta aggregate, Bpm e Bper non possano guardare in una seconda fase proprio a Carige e Creval, che per ora rimangono alla finestra e studiano il mercato, senza fretta.