28.05.2018

Banche nemiche? ci si può lavorare

  • Il Corriere della Sera

La tecnologia ucciderà il modello di business delle banche? Se c’è una persona che può rispondere a questa domanda è proprio Roberto Nicastro perché è uno dei pochi banchieri che si sta «sporcando» le mani con quel «mostro» chiamato Fintech: dopo essere stato il general manager di Unicredit ha gestito il dossier delle cosiddette Good bank e ora lavora per selezionare opportunità a metà strada tra tecnologia e finanza in Europa per il fondo Usa Cerberus. Non ultimo, a livello personale insieme alla moglie, ha investito in aziende innovative come Talent Garden, Deus Technology e First Advisory. Nel suo orizzonte, a differenza di quanto avvenuto per esempio con Corrado Passera, non ci sono progetti di Spac, anche se sta lavorando «a una banca completamente digitale per i finanziamenti alle piccole aziende». (Per ora non vuole rivelare il nome). Insomma, è un banchiere a cavallo tra due mondi che dovrebbero parlarsi ma che per adesso si guardano da lontano come potenziali nemici.

Dopo la musica e altri settori come quello dei media, il Fintech si candida a nuova grande disruption. Le grandi banche sono fuori gioco?

«La minaccia c’è. Ma bisogna tenere sempre da conto una frase di Bill Gates: i mercati e i consumatori sovrastimano quello che accadrà in due anni ma sottostimano quello che avverrà in dieci. In realtà ogni mese che passa le cose cambiano: l’esempio concreto viene da un’azienda che tendiamo quasi a considerare old economy. PayPal oggi ha un terzo dei pagamenti finanziari online. Stiamo parlando di una cifra enorme che è stata tolta al business delle banche. Ma PayPal nasce venti anni fa. Sono fenomeni seri che richiedono tempo. Un altro esempio viene dai cellulari. Già negli anni Novanta si parlava di Phone Banking ma gli schermi piccolissimi rendevano il passaggio difficile. Poi sono arrivati gli smartphone con i grandi schermi e l’internet banking è decollato. Insomma, non succede in 12-24 mesi. Il rischio di estinzione dei dinosauri c’è, ma nel lungo periodo».

Il problema sono le competenze o le infrastrutture?

«Il rischio più grande viene da quella che viene chiamata Legacy, l’eredità delle cose vecchie che stanno in banca: culture e competenze delle persone con il digitale che avanza dovrebbero cambiare molto velocemente, ma sappiamo che è una sfida molto difficile. Allo stesso tempo l’altra grande sfida che riguarda tutte banche, non solo quelle italiane ma quelle mondiali, è quella dell’infrastruttura. Tutte le banche siedono su sistemi informatici che vengono da decenni di stratificazioni, decenni di investimenti estremamente costosi ma anche difficili da cambiare. Tanto è vero che non c’è nessuna banca al mondo che li sta cambiando perché sarebbe come sostituire il motore a un aereo mentre è in volo».

Innovare è più facile se si parte da zero, come negli altri settori. Questo non chiude già i giochi nel lungo periodo?

«Sì, forse questo è l’elemento più pericoloso. Anche quando le grandi banche investono per esempio tre miliardi in tecnologia in realtà, se si va a guardare bene, l’80% finisce in manutenzione».

Soluzioni?

«Qualcuno in giro per il mondo sta montando modelli di banca completamente nuovi e separati e dichiara che tra 3-5 anni andrà a migrare tutto, informazioni e clienti».

Un esempio?

«Santander Uk, ma faccio notare che è un test, tant’è che non lo fanno su tutto il gruppo, ma solo in un Paese per vedere come va».

E come stanno le banche italiane?

«Credo che in realtà siano un po’ a metà strada: non ci vedo né un avanzamento maggiore, né minore. Sostanzialmente lavorano su quella che, a detta di tutti, è la priorità: se il Fintech riduce i margini, devi ridurre i costi».

Meno posti di lavoro.

«Non è un mistero che l’occupazione nei grandi bacini stia calando: non può che esserci una riduzione ed è abbastanza implicito. Oggi per gestire le informazioni hai bisogno di meno persone: in prospettiva alcune attività verranno digitalizzate e passate ai computer. Non è detto che sia un processo solo negativo: pensiamo ai robo-advisor. Permettono di dare consigli finanziari anche al cliente che ha 50 mila euro e non solo a quello che ha i milioni come avveniva nel private banking. Inoltre si apriranno posizione nuove, ma sui servizi finanziari il saldo netto tra nuovi lavori e tagli da automazione sarà negativo».

Un quadro fosco.

«In realtà il Fintech ha degli evidenti rischi ma offre anche opportunità alle banche per incrementare i ricavi: un esempio classico è quello dei big data. Ora sei maggiormente in grado di capire quali clienti stanno manifestando un potenziale rischio di abbandono. Si può capire il bisogno del cliente prima che si manifesti. Un altro è che il Fintech abbatte i costi per il cliente ma anche per la banca. Il Regtech, cioè l’automazione sulla regolamentazione bancaria, è un’altra opportunità. Oggi tutte le banche si lamentano delle tonnellate di regole che devono rispettare, non tanto quelle sul capitale ma quelle sull’antiriciclaggio e sulla Mifid. Qui la tecnologia può alleggerire e velocizzare il processo».

Sembra un cambio profondo del modello di business. È così?

«Sì, molto profondo. Per esempio oggi si enfatizza la necessità di separare chi fa i prodotti da chi si interfaccia con il cliente. Una potenziale risposta può essere che non faccio tutto come nel modello universale»

Finisce la banca generalista?

«Ci saranno banche verticali che faranno i prodotti oppure quelle che si specializzeranno nel rapporto con il cliente. Non produrranno nulla, ma faranno solo da distributore. Un po’ avverrà come nel settore delle Big Pharma che non fanno più ricerca al proprio interno ma acquistano. Un processo forse più costoso ma meno rischioso. Al Fintech mancano i clienti, alle banche l’innovazione». Sembra il matrimonio perfetto, sulla carta.