Non sfugge alla bancarotta fraudolenta documentale il presidente del consiglio di amministrazione che, di fronte a uno stato di illiquidità dell’azienda, non s’insospettisce almeno di fronte a documenti contabili che mostrano invece una forte capacità redditiva della società . Insomma: fino a prova contraria, il manager prima del fallimento non poteva non sapere che i rilevanti scambi economici indicati dalla contabilità fossero inesistenti e le relative fatture commerciali false. È quanto emerge dalla sentenza 19581/12, pubblicata il 23 maggio dalla quinta sezione penale della Cassazione.
Sono gli accertamenti svolti dalla guardia di finanza e dal curatore fallimentare a inchiodare il presidente del Cda. L’amministratore di fatto della società , dal canto suo, confessa che le fatture «incriminate» sono false. L’importo supera i 500 mila euro: il volume degli scambi fittizi, dunque, non può in alcun modo sfuggire al numero uno della compagine che ha comunque un quadro esauriente della gestione finanziaria della società . Il tutto mentre l’azienda attraversa un momento di grave tensione economica, con continue necessità di denaro e perdite sempre più ingombranti. Evidente il dolo specifico della bancarotta fraudolenta documentale: la falsa copertura delle perdite e l’occultamento del «rosso» consentono di tirare avanti in modo artificioso per oltre cinque anni. Senza dimenticare la spericolata manovra che consiste in un «posticcio» aumento di capitale effettuato non attraverso denaro contante ma mediante titoli cambiari rilasciati alla società dal legale rappresentante e dalla moglie.