C’erano una volta i “porti sicuri”. Impieghi che, nei momenti di bufera dei mercati, assicuravano al risparmiatore un buon riparo e talora anche qualche opportunità di guadagno. C’erano una volta, appunto, ma è quanto mai incerto che esistano ancora. Si diffonde infatti la convinzione che molti porti sicuri facciano parte delle vestigia del passato, spazzati via dalla violenza e dalla durata dell’ultima crisi.
Due potenti fattori hanno contribuito a far cadere i muri di questi ripari. Da un lato, mercati sempre più interconnessi trasmettono ovunque in tempo reale ogni minima vibrazione dei prezzi. Dall’altro, si fanno sentire pesantemente anche i comportamenti degli investitori, che proprio per fuggire dalle tensioni spingono verso l’alto i prezzi di alcuni asset considerati sicuri, creando potenziali bolle estremamente rischiose.
«L’avversione al rischio degli investitori – spiega infatti Ana Cukic Armstrong, gestore dei fondi Clerical Medical – ha spinto i cosiddetti safe-haven asset in un territorio a rischio bolla, rendendo altamente pericolosi molti di questi asset. L’esperienza insegna che dopo una grande crisi, anche per una questione psicologica, gli investitori sono portati a rifugiarsi in quelle asset class che meglio hanno performato durante il periodo di forte turbolenza. Ma ciò porta a una sopravvalutazione di questi asset, tanto da produrre una nuova bolla».
La storia e le cronache recenti abbondano di esempi che “confortano” questa tesi, dai titoli della new economy in poi. Come va di moda dire in questo periodo, il problema è bipartisan. Nel senso che riguarda sia gli operatori professionali sia i privati risparmiatori, anche se non in misura equivalente. I più esposti a rischi e conseguenze sono infatti i privati, che scontano – specialmente in Italia – una preparazione finanziaria spesso inadeguata. A questo si aggiunge un’ulteriore penalizzazione di tipo geografico. «L’Eurozona – precisa ancora Ana Cukic Armstrong – è un insieme di economie diverse con programmi e priorità differenti. Ha un nucleo forte e una periferia debole e sovra-indebitata. In più, è noto come la Germania, a differenza di Stati Uniti e Gran Bretagna, non sia incline a politiche di quantitative easing per il timore dell’inflazione».
Date queste premesse, secondo il gestore di Clerical Medical ai “porti sicuri” resta poco spazio. «Ci aspettiamo – conclude Cukic Armstrong – che il mercato si tiri fuori dai porti sicuri ormai sopravvalutati orientandosi verso asset in grado di garantire e incrementare nel tempo il valore reale dell’investimento. Un esempio? Le società che possono generare alti rendimenti e con flussi di cassa stabili, quali i titoli farmaceutici europei e le telecom globali. Le valutazioni rimangono attraenti, specie nel settore telecom. Riguardo al comparto obbligazionario, solo i bond Usa short duration mantengono il loro appeal, semplicemente perché rendono più dell’inflazione. Infine le commodities: l’oro è ancora nei nostri portafogli multi-asset, ma in chiave di copertura contro le inevitabili politiche monetarie espansive che caratterizzano le economie occidentali».
Dubbi e perplessità riscuotono largo seguito tra gli operatori. «Se non è da abolire – interviene Michele de Michelis, direttore investimenti di Frame Asset Management – nella migliore delle ipotesi la categoria dei porti sicuri va aggiornata drasticamente. Anche il passato, più o meno recente, insegna che il singolo asset sicuro probabilmente non è mai esistito. Quello che funziona, piuttosto, è un portafoglio ben diversificato, composto di asset decorrelati tra loro. Oltre a fornire un riparo, questo può assicurare un rendimento in termini reali».
Del resto, in uno scenario profondamente modificato anche i concetti di rischio e di sicurezza richiedono una revisione. «Nel funzionamento dei mercati – aggiunge de Michelis – è intervenuto un ulteriore fattore di complicazione: la politica. In definitiva, oggi non vedo porti che si possano definire sicuri, con l’eccezione del dollaro, che resta una delle valute commerciali mondiali. Ecco perché tra gli strumenti che potrebbero fornire un’eventuale protezione a medio-lungo periodo prenderei in considerazione i Treasury bond Usa legati all’inflazione. A questi affiancherei però azioni di aziende con una diversificazione mondiale del loro business. Soggetti come Johnson&Johnson, Nestlé o Vodafone, in grado di scaricare sui prezzi un eventuale aumento dell’inflazione in alcune aree geografiche. Naturalmente la difficoltà sta nell’individuare le società più valide e nel non cercare di ottenere risultati a breve termine».
Dalle valutazioni degli operatori emerge dunque una condizione nella quale la protezione degli investimenti esiste ancora, ma cambia frequentemente sembianze e spesso si trova in luoghi del mercato imprevisti. «I rifugi sicuri esistono ancora – riflette Richard Wohanka, Ceo della divisione asset management di Union Bancaire Privée -, talora dove meno ci si aspetta. Ma altri attivi, considerati solitamente “tranquilli”, stanno diventando più rischiosi. Per esempio, il profilo di rischio/rendimento delle obbligazioni governative è notevolmente cambiato e, ai nostri occhi, appare ben poco interessante. Le Banche centrali mantengono i rendimenti artificialmente bassi e i tassi d’interesse reali negativi non sono sostenibili nel lungo termine».
In questo gioco di specchi, il primo rischio per il risparmiatore è quello di perdere l’orientamento. Eppure, ancora una volta, nelle fasi complesse le opportunità non mancano: «Proprio mentre alcuni beni rifugio tradizionali stanno diventando più pericolosi – conclude Wohanka – classi di asset più rischiose appaiono più sicure. Le obbligazioni sovrane dei mercati emergenti sembrano ora navigare in acque più tranquille di quelle dei Paesi sviluppati. E per quanto riguarda le azioni, alcune aziende di qualità offrono rendimenti e rating che erano prima appannaggio dei mercati obbligazionari».