Se ne potrebbero aggiungere altri, di ultimo-ultima-ultimi. Riecheggeranno prevedibilmente il primo agosto, tra i tanti piccoli azionisti veri e, più ancora, dalla mini-pattuglia di professionisti d’assemblea che con il trasferimento ad Amsterdam finirà orfana del proprio quarto d’ora a un microfono (sarebbe un filo più costoso, e infatti alla riunione di bilancio qualcuno ci ha provato, a chiedere un charter: secco e scontato il «no» di Sergio Marchionne). Risuoneranno, e non sempre sarà solo nostalgia e/o retorica.
La Fabbrica Italiana Automobili Torino che, dopo un secolo abbondante con passaporto fin troppo torinese, molla la «mononazionalità» e porta in Olanda la sede legale, nel Regno Unito quella fiscale (a Slough, 30 chilometri dal centro di Londra, cuore del Berkshire industriale), negli Usa quella borsistica, è un fatto epocale che va chiaramente oltre la suggestione dei simboli. È sostanza. È la spia del «mondo piatto», come dice Marchionne: senza confini, e senza sconti per chi non regge il passo. È il sintomo, o l’effetto, di un sistema-Paese privo di una vera politica industriale, che in questo «mondo piatto» arranca a fiato sempre più corto.
In controtendenza
I colpi sulle aziende si sentono e si vedono. E, piaccia o no, la realtà è che le reazioni possibili non sono più di due. O forse sì, ma una «terza via» nessuno l’ha trovata. Di fronte alla rivoluzione scatenata dalla Grande Crisi Globale, le imprese italiane dei settori più colpiti hanno in genere subito: e allora, da Indesit ad Alitalia, sono i capitali stranieri che sono arrivati qui, così come per «ragioni di successione» sono arrivati in Loro Piana o in Pirelli. Oppure hanno provato a gestirlo, il cambiamento, con una buona dose di azzardo: e sono i nostri capitali, o il nostro know how, ad aver osato l’inosabile. Fiat, con Chrysler, questo ha fatto. Il punto è che è stata una delle pochissime (con Luxottica o, ora, Gtech: occhiali e lotterie sono però tutt’altra storia). E sì: le sedi vanno ad Amsterdam, Londra, New York, Marchionne starà sempre più a Detroit (e in aereo). Ma italiani restano gli stabilimenti-cuore della produzione europea e della scommessa-premium. E italiano resta l’azionista di controllo (il 30% di oggi è confermato, John Elkann e la famiglia non hanno alcuna intenzione di far scendere Exor sotto la maggioranza relativa).
Morale, dovremmo deciderci: nel «mondo piatto» di cui sopra, quello in cui la competitività delle multinazionali si gioca anche sui sistemi fiscali e di diritto societario, dove sta, come si misura l’«italianità»?
La sfida
Per ora, è vero che la sfida è tutt’altro che finita e la posta promessa — il quinto gruppo automobilistico mondiale, solido e redditizio, le sue fabbriche tricolori forti e centrali — rimane appunto una promessa. Ma il processo avviato con l’acquisizione di Chrysler, e che il primo agosto aprirà definitivamente il nuovo ciclo con il via libera a Fca, consegna agli azionisti un gruppo radicalmente diverso dal Lingotto di soli dieci anni fa.
Quella Fiat, troppo concentrata in Europa e con il Brasile unica vera diversificazione geografica, alla Grande Crisi forse non sarebbe sopravvissuta. Di sicuro sarebbe molto, molto ammaccata. Oggi continua a perdere il confronto di redditività con i principali concorrenti: ma grazie a Chrysler guadagna, e batte almeno i francesi (e Ford). Ha un debito elevato, e lo stesso Marchionne ammette di dover affrontare il nodo («Senza aumenti di capitale»): ma ha anche un cash altrettanto elevato ed è grazie a quello che, se è ultima nella classifica R&S Mediobanca sulla solidità finanziaria delle multinazionali automotive, nella graduatoria che combina quest’ultima con la redditività media e la liquidità pur finendo solo quindicesima stacca di due posizioni il benchmark Volkswagen. È, per finire, salita dal nono posto del 2003 al sesto di adesso nella hit dei costruttori: giusto per dare un’idea, senza Chrysler non sarebbe rimasta nona, sarebbe precipitata a quota 13.
Il resto sono le promesse-scommesse che, a partire dalla «rivoluzione premium» e tra mille criticità (ultima in ordine di tempo il calo del mercato brasiliano), Marchionne & Elkann devono mantenere. Le basi le hanno. Lo spazio (teorico) anche: la Fiat che in Asia ha sempre fallito con Jeep e Alfa ce la può fare. Il tempo lo dovranno conquistare, come e per certi aspetti ancor più del resto, perché quello di un progetto industriale tanto complesso e rischioso non è lo stesso dei mercati finanziari. L’ottobre a Wall Street, dirà su quanta fiducia possono contare.