L’abuso del diritto è ormai depenalizzato. E l’impatto è immediato sui procedimenti in corso, portando di fatto al proscioglimento, con la classica formula «perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato», anche chi era già stato condannato due volte dai giudici di merito. Questa la presa d’atto della Corte di cassazione che, con la sentenza n. 40272 della Terza sezione penale, applica per la prima volta la riforma entrata in vigore lo scorso 1° ottobre. È stato così assolto il rappresentante legale di una società sanzionato sia in primo sia in appello dai giudici di Milano per il reato di dichiarazione infedele. La colpa? Avere posto in essere un contratto di «stock lending» sottoscritto con l’unico obiettivo di evadere le imposte sui redditi.
La Cassazione ripercorre puntigliosamente il percorso normativo che ha condotto alla depenalizzazione. Sin dalla legge delega n. 23 del 2014, la cui previsione sul punto era indirizzata, nell’assenza di una clausola antielusiva generale, a riequilibrare il rapporto tra lo strumento di contrasto all’elusione e la certezza del diritto, nella consapevolezza di una «prassi amministrativa di sindacare ex post le scelte dei contribuenti sulla base di orientamenti non noti al momento in cui le operazioni sottoposte a controllo sono già decise ed effettuate».
Il nuovo articolo dello Statuto, ricorda la Corte, mette in evidenza l’unificazione della nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale. I 3 presupporti dell’abuso del diritto allora sono:
l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate;
la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito;
la circostanza che il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione.
Requisiti poi sui quali la norma, scrivono i giudici, si sofferma in maniera analitica chiarendone il significato. Determinante è allora la nozione di vantaggio fiscale indebito, vero argine alla libertà di iniziativa economica, facendo di conseguenza diventare ancora più delicata l’operazione di individuazione della ratio della singola norma tributaria. In questo senso, esemplifica la sentenza, non è certo abusiva la condotta di chi per procedere all’estinzione di una società mette in atto una fusione, invece di provvedere alla semplice liquidazione.
La Corte si concentra poi sul regime transitorio, sottolineando che la riforma deve essere applicata anche ai procedimenti in corso, distinguendo però tra piano penale e piano amministrativo. Sul primo, la conclusione è appunto quella di un’avvenuta depenalizzazione che conduce al proscioglimento, nel rigoroso rispetto dei principi base del diritto penale, oltre che della Costituzione e delle Convenzioni internazionali (New York 1966). Ma sul piano amministrativo, sul quale la condotta può ancora assumere rilevanza, visto che, come ovvio, era stato notificato l’atto di accertamento, la sentenza osserva che tutto resta impregiudicato.
Anzi, conclude la pronuncia, pur non essendo stato previsto un obbligo vero e proprio, la scelta del legislatore di procedere a una totale irrilevanza della condotta, ha come conseguenza la trasmissione da parte della Corte del dispositivo della sentenza all’amministrazione finanziaria competente per le scelte del caso.