La legge di riforma del processo civile ha introdotto, all’art. 391 quater c.p.c., una ipotesi di revocazione delle sentenze per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Si tratta di una innovazione che pone fine ad un dibattito ultradecennale sulle modalità di attuazione delle sentenze definite della CEDU in conflitto con provvedimenti nazionali passati in giudicato.
In precedenza la questione era stata risolta, in via giurisprudenziale, distinguendosi a seconda che il conflitto riguardasse un giudicato penale ovvero uno civile od amministrativo.
In materia penale, in particolare, il problema era stato inizialmente risolto dalla Corte di Cassazione, con la nota decisione n. 2800 del 25 gennaio 2007, mediante l’utilizzo degli incidenti di esecuzione. Una volta che la Corte europea avesse accertato che la condanna era stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sull’equo processo sancite dall’art. 6 della Convenzione, il giudice dell’esecuzione nazionale si sarebbe conformato alla decisione CEDU semplicemente limitandosi a non eseguire il provvedimento viziato.
Proprio la fattispecie dei vizi di natura processuale fonte della riflessione della Corte, tuttavia, si rivelò, a piu’ attenta analisi, equivoca.
In presenza di una violazione di una norma di natura sostanziale è sicuramente il provvedimento di condanna che, in quanto viziato nel merito, non deve essere eseguito. Viceversa, in presenza di una violazione processuale non è detto che il provvedimento cui si è giunti sia altrettanto ingiusto. A valle di una ripetizione del processo secondo parametri e criteri di piena equità, si potrebbe astrattamente giungere alla medesima condanna originariamente derivante dal procedimento viziato. Per questo motivo, per evitare di fare discendere da un errore di giudizio conseguenze “automatiche” di natura sostanziale, della questione fu investita la Corte costituzionale, cui fu chiesto di valutare la potenziale illegittimità dell’art. 630 c.p.c. (la revisione della sentenza) nella parte in cui non si prevede la rinnovazione del processo in presenza di una violazione dell’art. 2 della Convenzione in materia di giusto processo. In tale sede la Corte, con la sentenza n. 113 del 7 aprile 2011, dichiarò l’incostituzionalità della norma laddove non prevede la riapertura del processo ed una sua successiva revisione, perchè, in presenza di vizi processuali, è “la riapertura del processo il meccanismo piu’ consono ai fini della restitutio in integrum”.
Si sarebbe potuto pensare, stante la chiarezza della pronuncia, che identico ragionamento sarebbe stato offerto in ambito civile.
Tutto al contrario, adita per introdurre una ipotesi di revocazione straordinaria per contrasto con il giudicato della Corte EDU in presenza di sentenze civili o amministrative, con la sentenza n. 123 del 26 maggio 2017 la Corte costituzionale affermò che la mancata previsione di una regola sulla riapertura del processo viziato non determina l’incostituzionalità della norma. E ciò, in primo luogo, perchè lo stesso art. 46 della Convenzione sui Diritti dell’Uomo, limitandosi a prevedere un obbligo di adeguamento alle sentenze della Corte di Giustizia, di fatto lascerebbe agli Stati la libertà di scegliere i mezzi con cui effettuare tale conformità; ma poi, anche, perché mentre nel caso di provvedimenti di natura penale vi sarebbe in primo luogo un interesse ordinamentale alla correttezza della pronuncia, nei procedimenti civili vengono in discussione situazioni di diritto lasciate alla tutela del singolo, cosicchè “la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24, tra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi e tale ponderazione spetta in via prirotaria al legislatore”.
La riflessione, pronunciata sulla scia di un vero e proprio ripensamento delle relazioni tra ordinamento nazionale e convenzionale (ripensamento poi oggetto di parziale revirement con la sentenza n. 68 del 2021, con cui si sono parificate le sentenze penali a quelle formalmente amministrative ma sostanzialmente penali secondo i ben noto “criteri Engel”), sembrò sino da subito non perfettamente centrata sia perché quello all’equo processo è diritto che non puo’ flettersi a seconda della (ritenuta) maggiore o minore rilevanza degli interessi in gioco, sia perchè, in termini sostanziali, esistono provvedimenti emessi in sede civile che per la loro rilevanza – e quindi afflittività – possono influire negativamente sulle capacità vitali di una persona assai piu’ che sentenze di condanna penali. Si pensi, in primo luogo, ai diritti di status, che incidendo direttamente sulle caratteristiche giuridiche e dunque sulle qualità della persona, tipicamente si riflettono sulla vita di relazione e professionale del soggetto inciso; ma anche, più in generale, a quelle diverse ipotesi in cui la ricostruzione del danno subito è cosi’ complessa da rendere difficile (quando non impossibile) una piena reintegrazione di natura risarcitoria.
La riforma del processo civile, con l’introduzione del citato articolo 391 quater c.p.c., ha recepito le critiche portate alla menionata sentenza della Corte costituzionale n. 123, prevedendo l’impugnabilità per revocazione straordinaria delle sentenze nazionali passate in giudicato contrastanti con la Convenzione dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali.
Per quanto attiene alle condizioni di esperibilità (in omaggio a quanto effettuato anche in altri ordinamenti: es. l’art. 382 § 2 del codice di procedura civile svizzero), queste sono state specificamente disegnate per fornire tutela alla parte incisa in quelle ipotesi in cui particolarmente difficile è una sua reintegrazione nella pienezza del diritto leso. L’azione è infatti esperibile in qui casi in cui la violazione accertata ha pregiudicato un diritto di stato della persona e l’equa indennità accordabile dalla Corte europea ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione non è idonea a compensare le conseguenze della violazione. I due parametri sono sicuramente differenti perché il primo riguarda il tipo di lesione sofferta dalla parte ed il secondo attiene alla sostanziale residualità dello strumento processuale utilizzabile. Tuttavia, ammesso anche che il cumulo delle due condizioni di esercizio (quid est: la necessità che concorrano entrambe per potersi procedere alla revocazione) legittimi la revocazione solo allorquando lo strumento ordinario dell’indennizzo risulti di difficile utilizzo, non si puo’ non pensare che proprio la materia che legittima la revocazione (i diritti di status) dovrebbe rendere legittima l’azione in un ampio numero di casi. Come già evidenziato, infatti, sono proprio le lesioni di tali diritti quelle che, tradizionalmente, si riflettono sulla vita di relazione della persona in termini difficili da definire in termini squisitamente risarcitori.
Per quanto attiene invece ai termini di proponibilità, invece, la norma non lascia adito a dubbi: il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea ai sensi del regolamento della Corte stessa. E’ dunque la pubblicazione della sentenza a venire qualificato come evento legittimante la revocazione straordinaria.