21.05.2024 Icon

Liquidazione delle spese di lite: mai al di sotto del 50% dei valori medi

Partendo da un caso riguardante l’opposizione ad una cartella esattoriale, la Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui, nel caso di liquidazione delle spese di lite, in nessun caso il giudice può diminuire il compenso in misura superiore al limite consentito dalla norma.

La parte opponente, dopo aver promosso con successo l’opposizione alla cartella esattoriale, impugnava il provvedimento lamentando l’erronea liquidazione delle spese di lite in misura inferiore alla nota spese e, comunque, al di sotto dei parametri di legge.

Il Tribunale di Roma, incaricato della questione, rigettava l’appello, motivando la sua decisione sulla base del fatto che “si trattava di controversia di estrema modestia, inquadrabile nelle opposizioni alle violazioni ed ai conseguenti provvedimenti sanzionatori attinenti al codice della strada, del tutto routinaria e azionabile mediante standard ripetitivi, prive di problematiche di qualche spessore in fatto e/o di diritto, per cui era giusto l’avere proceduto all’abbattimento dei valori medi tabellari”.

Veniva pertanto promosso il ricorso per cassazione, con il quale la ricorrente, quale unico motivo di ricorso, sosteneva che il Tribunale di Roma, nel rigettare l’appello, avesse violato il disposto dell’art. 4 del d.m. 55/2014 e delle tabelle ad esso allegate.

La Cassazione, incaricata della questione, accoglieva le censure promosse dalla ricorrente, evidenziando che, in tema di liquidazione delle spese di lite, vi sono due orientamenti contrastanti: un primo orientamento che afferma la possibilità per il giudice di scendere “anche al di sotto dei limiti risultanti dell’applicazione delle massime percentuali di scostamento, purché ne dia apposita e specifica motivazione” e un secondo orientamento secondo cui, al contrario, è censurabile il provvedimento che liquidi le spese in misura inferiore rispetto al minimo di cui al parametro di riferimento, minimo che viene definito inderogabile.

Dopo un’attenta disamina della normativa in tema di spese processuali, anche con riferimento al tema del c.d. “equo compenso”, la Cassazione ha ritenuto essere evidente la volontà del legislatore di assimilare i paramenti minimi fissati dall’apposito decreto alla misura dell’equo compenso, trattandosi di esigenza “che trova un suo fondamento costituzionale nell’art. 35, e che si giustifica al fine di impedire la conclusione di accordi volti a mortificare la professionalità dell’esercente la professione forense, con la fissazione di compensi meramente simbolici e non consoni al decoro della professione”.

Secondo i Giudici, tale elemento è essenziale in quanto “non viene in rilievo solo l’interesse (privato) del professionista a percepire un compenso equo, ma anche un interesse generale (pubblico) di tutela dell’indipendenza e dell’autonomia del professionista, atto a garantire la qualità e il livello della prestazione offerta nonché la buona e corretta amministrazione della giustizia, a loro volta indispensabili per assicurare il pieno esplicarsi del diritto di difesa, tanto più meritevole di tutela in quanto sancito a livello costituzionale (art. 24 Cost.)”

Alla luce di queste argomentazioni, la Cassazione ha statuito il seguente principio di diritto: “ai fini della liquidazione in sede giudiziale del compenso spettante all’avvocato nel rapporto col proprio cliente, in caso di mancata determinazione consensuale, come ai fini della liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente, ovvero in caso di liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al beneficio patrocinio a spese dello Stato nella vigenza dell’art. 4, comma 1, e 12, comma 1, del d.m. n. 55 del 2014, come modificati dal d.m. n. 37 del 2018, il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di cui alle tabelle allegate”.

Autore Davide Ghidotti

Associate

Milano

d.ghidotti@lascalaw.com

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