16.01.2024 Icon

Nessuna pietà per l’appaltatore combinaguai

Con l’ordinanza del 17 novembre scorso, la Cassazione ha colto l’occasione per ribadire alcuni capisaldi in tema di contratto di appalto.

Vediamoli insieme.

La vicenda esaminata trae origine dal procedimento arbitrale incardinato da una società committente contro una società appaltatrice all’esito della realizzazione di un capannone industriale che aveva presentato, nel manto di copertura, diversi difetti costruttivi, i quali avevano comportato plurime infiltrazioni che si erano propagate negli ambienti sottostanti.

Il collegio arbitrale, tuttavia, aveva condannato la società appaltatrice alla refusione di danni e spese inferiori rispetto alla quantificazione effettuata e richiesta dalla committente; circostanza che aveva portato quest’ultima ad impugnare il lodo arbitrale innanzi alla Corte d’Appello competente.

Anche in questa sede, tuttavia, la domanda della committente era stata rigettata sul presupposto che il collegio arbitrale avesse correttamente condannato la società appaltatrice a risarcire le spese sostenute dalla committente al fine di eliminare i vizi. Spese ritenute esaustive e sufficienti.

Avverso tale decisione la committente ha quindi proposto ricorso in Cassazione contestando la sentenza resa dalla Corte d’Appello nella parte in cui non aveva riconosciuto il risarcimento del danno per equivalente.

Una motivazione ritenuta fondata dalla Cassazione che, come anticipato, ha colto l’occasione per ribadire alcuni principi fondamentali in tema d’appalto.

In primo luogo, secondo la Suprema Corte, il risarcimento dei danni riconducibili all’azione esperita ai sensi degli artt. 1668 e 1669 c.c. deve essere comprensivo – avuto riguardo agli artt. 1223 e 1668 – non solo delle spese sopportate per ovviare temporaneamente agli inconvenienti accertati ma anche di quelle che consentano il risarcimento dell’intero pregiudizio subito mediante l’eliminazione definitiva dei difetti costruttivi riscontrati, in modo tale da garantire la corrispondenza dell’opera rispetto a quanto concordato nel contratto.

Ciò in quanto “la responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente, per i difetti dell’opera a norma degli artt. 1667 e 1668 c.c. non ammette esclusioni (salvo quelle dipendenti dall’accettazione senza riserve dell’opera e dal venir meno della garanzia per effetto di decadenza) e neppure limitazioni, dato che l’art. 1668 c.c., comma 1, pone a carico dell’appaltatore tutte le conseguenze dell’inesatto adempimento, obbligandolo a sopportare l’onere integrale dell’eliminazione dei vizi”.

In secondo luogo, precisa e ricorda la Suprema Corte, qualora il committente agisca nei confronti dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1668 c.c. per il risarcimento dei danni derivanti da vizi o difformità dell’opera, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, grava sull’appaltatore l’onere di provare che la cattiva esecuzione dell’opera sia stata determinata dall’impossibilità di un inesatto inadempimento della prestazione derivante da causa ad esso non imputabile, non essendo il committente tenuto a dimostrare la colpa dell’appaltatore medesimo.

Alla luce delle argomentazioni che precedono la Cassazione ha accolto il ricorso della committente e cassato la sentenza impugnata, rinviando il giudizio alla Corte d’appello competente, in diversa composizione.

Autore Federica Vitucci

Associate

Milano

f.vitucci@lascalaw.com

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