Tizia, proprietaria di un appartamento sito al piano terra e di alcuni locali commerciali, citava in giudizio Caio e Sempronia, precedenti proprietari, evidenziando come tali immobili godevano di una servitù di passaggio attraverso il portone e l’androne del fabbricato, rimasti in proprietà di convenuti.
Caio e Sempronia avevano realizzato un ascensore, così le dimensioni dell’ingresso rendendo più difficoltoso l’esercizio della servitù.
L’attrice contestava dunque la legittimità dell’ascensore, realizzato in violazione della distanza legale fra gli immobili, costituendo dunque una innovazione non legittima.
Parte convenuta si costituiva in giudizio sostenendo che l’opera, autorizzata tramite scrittura privata, era finalizzata all’abbattimento delle barriere architettoniche ex art. 3 della l. n. 13/1989, e dunque non era soggetta ai limiti delle distanze legali. In ogni caso, l’ascensore non poteva essere considerato innovazione afferente all’uso del bene comune, in quanto insisteva sulla proprietà esclusiva delle convenute e non nello spazio comune.
Il Tribunale accoglieva le domande di Tizia, condannando i convenuti all’arretramento dell’opera fino al rispetto delle distanze legali.
La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado, evidenziando in particolare come l’ascensore non rispondeva ad esigenze di abbattimento delle barriere architettoniche, sia da un punto di vista procedurale-amministrativo, (mancando specifica attestazione dell’handicap), sia con riguardo alla oggettività tecnica.
Gli ex proprietari proponevano ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 7609 del 21 marzo 2024, rigettava il ricorso confermando le statuizioni di primo grado.
I giudici di legittimità hanno respinto le doglianze dei ricorrenti secondo cui la Corte territoriale, tra le altre cose, oltre a negare la sussistenza dello scopo di abbattimento delle barriere architettoniche, non avrebbe tenuto conto del fatto che le caratteristiche previste dall’art. 3 della l. n. 13/1989 non potevano essere rispettate, trattandosi di un intervento su un fabbricato preesistente e non di nuova costruzione o ristrutturazione.
La Cassazione ha ritenuto di distinguere le diverse ipotesi di installazione dell’ascensore.
In particolare, osservano i giudici, al fine di eliminare le barriere architettoniche, l’installazione di un ascensore da parte di un condomino in area comunale rientra nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c. senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall’art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell’art. 3, comma 2, l. n. 13/1989, non trovando detta disposizione applicazione in àmbito condominiale.
Tanto premesso, il condominio aveva correttamente negato la propria legittimazione passiva, stante che l’opera era stata realizzata sulla proprietà esclusiva. Inoltre, il CTU aveva accertato la non idoneità dell’ascensore allo scopo di abbattere le barriere architettoniche per assenza di certificazione di conformità e perché privo dei requisiti dimensionali e tecnologici necessari.
Dunque, a prescindere dall’assenza dei requisiti (presupposti dell’handicap e prescrizioni tecniche), nel caso di specie è emerso che non sussisteva alcuno spazio comune (condominiale) tra l’ascensore e l’immobile, né, tantomeno, la struttura insisteva su area condominiale.
Di conseguenza trovava applicazione l’art. 907 c.c., rubricato “distanza delle costruzioni dalle vedute”: l’art. 3, comma 2, della l. n. 13/1989 dispone infatti che è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del Codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune.
In definitiva, si può affermare che l’installazione di un ascensore richiede il rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune. Ne consegue che il rispetto dell’art. 907 c.c. deve essere assicurato al di fuori dell’ambito condominiale.