Una bella dormita ed un po’ di riposo avrebbero, forse, evitato all’avvocato l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione per due mesi, poi rideterminata dal CNF in quella della censura.
L’avvocato in questione è una neomamma alla quale viene contestata la violazione degli articoli 52 e 53 del codice deontologico forense in quanto, in un atto di opposizione all’archiviazione, muoveva affermazioni gravi e sconvenienti nei confronti del magistrato.
L’Avvocato ricorre in Cassazione, affidando il proprio ricorso a diversi motivi, in realtà tutti poi disattesi dai giudici.
La ricorrente sostiene che la carenza di sonno l’aveva portata a redigere l’atto di opposizione ad archiviazione in sostanziale assenza di coscienza e volontà.
La Corte di Cassazione ritiene tuttavia inammissibile la questione, ricordando che la valutazione del CNF in ordine alla sussistenza dell’elemento sia psicologico che materiale è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione ed è immune da errori.
Inoltre, il mancato riposo, non poteva comunque escludere la condotta contestata in ragione del mezzo attraverso cui l’illecito era stato commesso, cioè un atto scritto, che in quanto tale offriva una possibilità di verifica e rilettura, a maggior ragione necessitate dalla particolare stanchezza della redattrice.
Inutile anche il tentativo della professionista di evocare il principio di specialità, che comporterebbe a suo dire l’impossibilità di un’applicazione contestuale degli articoli 52 e 53 del codice deontologico.
Il primo articolo prevede che l’avvocato debba evitare l’uso di espressioni sconvenienti e offensive negli scritti del giudizio e nella sua attività di legale anche nei confronti dei magistrati;
Il secondo articolo impone un dovere di reciproco rispetto tra avvocati e giudici.
L’art. 52 presidia interessi ulteriori di quelli garantiti dall’art. 53, che impone il reciproco rispetto anche al di fuori delle attività lavorative: sono proprio il mezzo e il contesto nel quale le espressioni vengono usate che richiede di differenziare.
La Corte afferma che «mentre l’art. 53 delimita l’ambito etico nel quale devono estrinsecarsi i rapporti fra avvocati e magistrati, richiamando, al riguardo, i principi generali della pari dignità e del reciproco rispetto, l’art. 52 individua una specifica violazione dei canoni comportamentali, che potrebbe essere commessa per il tramite della redazione di atti processuali e comunque nell’esercizio dell’attività professionale, operando quindi a tutela del decoro e della dignità della stessa professione, dovendosi reputare che l’utilizzo delle “espressioni sconvenienti ed offensive negli scritti in giudizio” ben può comportare la violazione di entrambe le norme.
Il ricorso viene interamente rigettato.