In caso di procreazione medicalmente assistita (PMA), laddove sia venuto meno l’originario progetto di coppia, l’uomo può revocare il consenso originariamente prestato dopo la fecondazione dell’ovulo?
Sulla specifica questione è intervenuta la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della Legge 19 febbraio 2004, n. 40.
La norma in questione prevede che la volontà di accedere al percorso di PMA è espressa dai componenti della coppia per iscritto e che tale volontà può essere revocata solo fino al momento della fecondazione dell’ovulo.
Ad avviso del giudice rimettente, tale norma contrasterebbe con la Costituzione quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso.
La questione è sorta nell’ambito di un giudizio promosso da una donna nei confronti di una struttura sanitaria presso la quale aveva intrapreso un percorso di PMA per ottenere la condanna della struttura al decongelamento dell’embrione e al successivo impianto e, ciò nonostante, nel frattempo si fosse separata dall’allora coniuge.
L’ex marito si opponeva sostenendo di aver revocato il consenso precedentemente prestato e ritenendo di non poter essere obbligato a diventare padre.
La Corte Costituzione ha tuttavia dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionali sollevate dal Tribunale.
I Giudici delle Leggi hanno infatti evidenziato che l’irrevocabilità del consenso appare funzionale a salvaguardare preminenti interessi. L’accesso alla PMA comporta infatti per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni.
A parere della Corte, corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell’impianto dell’embrione nel proprio utero.
I Giudici sottolineano poi come a questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale.
Se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina della irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può anche risultare indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA fa si che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre.
Tale meccanismo secondo la Corte Costituzione assicura una corrispondenza e un bilanciamento fra libertà e responsabilità.
La sentenza, dunque, conclude affermando che considerando la tutela della salute fisica e psichica della madre e la dignità dell’embrione, non è irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell’uomo.
Ovviamente la ricerca di un diverso ragionevole punto di equilibrio, eventualmente anche diverso da quello attuale, non può che spettare al legislatore.
A parere di chi scrive, è bene prestare particolare attenzione ogni qualvolta si sottoscrive un consenso informato, ovvero quel documento che rappresenta l’atto di volontà del paziente che ha ricevuto un’adeguata e corretta informazione e che gli consente di prendere una decisione consapevole, autonoma, cosciente e ponderata rispetto ai trattamenti ai quali si sottopone, valutando altresì la revocabilità o meno del consenso prestato.