Nell’ambito di un complesso residenziale costituito da tre edifici la società Alfa, proprietaria esclusiva di alcune aree, agiva nei confronti del Condominio Beta proponendo l’actio negatoria servitutis in relazione ad una porzione del porticato a servizio dei predetti edifici, chiedendo la condanna del condominio a rimuovere un pozzetto di raccolta delle acque piovane realizzato all’interno del porticato oggetto di causa ed al relativo ripristino.
Il Tribunale rigettava la domanda, sulla scorta della ravvisata esistenza di un supercondominio sulle aree oggetto di causa, e dunque della liceità dell’utilizzazione di queste ultime, in quanto compresa nei limiti del godimento della cosa comune.
A seguito di rigetto della domanda la società proponeva appello, e la Corte territoriale accoglieva il primo motivo del gravame interposto da Alfa, dichiarando inammissibile l’intervento spiegato dai condomini del condominio convenuto, e confermava nel resto la statuizione di rigetto della actio negatoria servitutis, ravvisando la natura supercondominiale del bene oggetto di causa.
Avverso il provvedimento in esame, tra i vari motivi, la società ricorrente proponeva ricorso in cassazione contestando la natura supercondominiale.
La terza sezione della Suprema Corte, con sentenza del 3 luglio 2024, n. 18238, si pronunciava rigettando il ricorso.
Ripercorrendo quanto affermato dai giudici di secondo grado, la Cassazione ha osservato che per l’esistenza di un supercondominio non occorra un atto formale, ma sia sufficiente che taluni beni vengano di fatto destinati a servizio di diversi edifici, a loro volta costituiti in condominio, così come affermato da un costante orientamento secondo cui “al pari del condominio negli edifici, regolato dagli artt. 1117 e segg. c.c., anche il c.d. supercondominio, viene in essere ipso iure et facto, se il titolo non dispone altrimenti, senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni e tanto meno di approvazioni assembleari, essendo sufficiente che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, pro quota, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati”.
Non è dunque richiesta l’originaria appartenenza del bene in supercondominio al medesimo proprietario dei vari condomini che ne usufruiscono, ben potendosi configurare la predetta natura supercondominiale proprio in funzione del vincolo di asservimento del cespite a diversi edifici, in assenza di clausola contrattuale che preveda espressamente la riserva di proprietà dei beni in esame in capo ad un determinato soggetto, facente parte di uno dei Condomini partecipanti al supercondominio o meno.
In questo senso, dunque, la natura supercondominiale del porticato derivava dai regolamenti dei vari condominii costituiti in relazione ai tre edifici facenti parte del complesso. Dalla documentazione in atti era prevista la destinazione all’uso comune ed al transito a favore di tutti i caseggiati, al di là di una precisazione, contenuta nel solo regolamento del condominio Y, che non poteva condurre ad ipotizzare la possibilità che il medesimo bene costituisse, al contempo, bene comune per i partecipanti di uno solo condominio.
Più precisamente, la riserva di proprietà operata dagli originari costruttori del complesso immobiliare riguardava soltanto “il piano terreno” e non anche il porticato esterno, e doveva quindi essere interpretata come riferita ai soli spazi interni al piano terra, e non anche alle aree esterne agli edifici.
In definitiva, è stata esclusa la sussistenza di un diritto di servitù, ravvisando la natura supercondominiale delle aree oggetto di causa, e dunque l’esistenza su di esse di una comunione tra i diversi condominii compresi nell’unitario complesso.