Non sono rari i casi in cui un politico venga accusato dalla Procura della Repubblica di essersi appropriato indebitamente di fondi pubblici destinati al proprio ufficio o al proprio gruppo politico di appartenenza in seno ad un organo legislativo.
Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso in cui un esponente parlamentare o di un consiglio regionale utilizzi fondi destinati al proprio gruppo parlamentare o consiliare per fini che esulano dall’attività degli stessi.
In tali casi, il reato configurabile è quello di peculato (punito dall’art. 314 c.p.), delitto particolarmente grave vista l’entità delle pene previste (da un minimo di 4 anni fino a 10 anni e 6 mesi di reclusione).
Proprio con riferimento ad un caso analogo ha recentemente avuto modo di confrontarsi la Suprema Corte di Cassazione (con Cass. Pen., Sez. VI, sent. 12 dicembre 2023, n. 49322/2023).
Nel caso deciso dagli ermellini, l’imputata – consigliera regionale molisana accusata, appunto, di peculato – era stata condannata dai giudici di merito poiché avrebbe realizzato spese, a detta del Tribunale e della Corte di Appello, “ontologicamente incompatibili” con le finalità dei fondi assegnati al suo gruppo consiliare.
Nello specifico, la sentenza della Corte di Appello – pur affermando che l’imputata non aveva utilizzato tali fondi per finalità personali – aveva ritenuto che la stessa avesse usato il denaro per attività elettorale e di rappresentanza (quindi estranee all’attività del gruppo consiliare) sulla base di tre elementi: i) la mancata adeguata rendicontazione; ii) la mancata indicazione dell’imputata “della non esondazione dal perimetro istituzionale dell’attività consiliare”; iii) il fatto che l’imputata e molte persone nel cui interesse questa avrebbe sostenuto le spese avessero comunque regolare retribuzione.
Avverso la condanna di secondo grado proponeva ricorso la consigliera regionale e la Corte di Cassazione, in un’ottica giustamente garantista, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna.
Nello specifico, secondo gli ermellini “non è configurabile il delitto di peculato in caso di inadeguatezza e incompletezza dei giustificativi contabili relativi a spese di rappresentanza, che non permettono di riferire gli esborsi a finalità istituzionali dell’ente, gravando sull’accusa l’onere della prova dell’appropriazione del denaro pubblico e della sua destinazione a finalità privatistiche (…) o comunque non strettamente afferenti all’attività consiliare (…) non potendo farsi derivare l’illiceità della spesa dalla mancanza di adeguata giustificazione contabile delle spese ed occorrendo, per contro, la prova dell’appropriazione, e quindi dell’offensività della condotta, quantomeno in termini di alterazione del buon andamento della pubblica amministrazione”.