22.05.2023 Icon

La nuova “clausola” speciale di non punibilità dei reati tributari

Il c.d. decreto bollette (D.L. n. 34/2023), nel dettare misure di sostegno a famiglie ed imprese, ha disciplinato una nuova fattispecie di non punibilità per alcuni reati tributari di cui al d.lgs. n. 74/2000.

Si tratta, nello specifico, dei delitti di omesso versamento di ritenute (art. 10-bis), omesso versamento di IVA (10-ter), ed indebita compensazione (10-quater, c. 1): fattispecie per le quali il legislatore ritiene (ancora una volta) più utile l’incasso delle somme dovute dal contribuente rispetto al perseguimento di esigenze punitive.

In concreto, l’art. 23 del D.L. n. 34/2023 dispone che i predetti reati, “[…] non sono punibili quando le relative violazioni sono correttamente definite e le somme dovute sono versate integralmente dal contribuente secondo le modalità e nei termini previsti dall’articolo 1, commi da 153 a 158 e da 166 a 252, della legge 29 dicembre 2022, n.  197, purché le relative procedure siano definite prima della pronuncia della sentenza di appello”.

Come noto, i reati ex artt. 10-bis, ter e quater c. 1 d.lgs. n. 74/2000 conoscono già da tempo una clausola di non punibilità. L’art. 13, infatti, prescrive che i predetti reati non siano punibili “se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti […]”. La cruciale differenza tra le due fattispecie risiede, in estrema sintesi, nell’individuazione del termine ultimo per l’estinzione dei debiti tributari. Se l’art. 13 d.lgs. n. 74/2000 lascia aperto lo spiraglio fino all’apertura del dibattimento di primo grado, la nuova clausola spalanca le porte al contribuente-imputato per tutta la durata dei gradi di merito.

Il confronto tra le due norme evidenzia le differenti finalità del legislatore. Se l’art. 13 d.lgs. n. 74/2000 rappresenta un’opportunità predibattimentale, presidiata dalla “minaccia” di una possibile condanna, la nuova clausola è molto meno ambiziosa, dando possibilità all’imputato di appellare l’eventuale condanna in primo grado e, in caso di esito prevedibilmente negativo, di ottenere il medesimo effetto estintivo appena prima della pronuncia della sentenza d’appello.

I primi commentatori hanno puntualmente criticato la nuova clausola, ritenendo che la strutturazione del precetto non rispetti i rigorosi canoni del diritto penale. Nello specifico, autorevole dottrina ritiene che l’intellegibilità della norma sia compromessa dal massiccio rinvio ai “commi da 153 a 158 e da 166 a 252, della legge 29 dicembre 2022, n.  197”, a loro volta contenenti ulteriori rinvii ad altri testi normativi, con compromissione del c.d. principio di precisione.

Seppur ben fondata, tale obiezione coglie non un tratto distintivo della nuova fattispecie in sé, quanto, purtroppo, una generale tendenza in materia penal-tributaria. D’altronde, anche la clausola di non punibilità di cui all’art. 13 d.lgs. 74/2000, seppur in misura minore, non brilla certamente di chiarezza espositiva, laddove essa fa riferimento a “speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso”. Paradossalmente, il criptico rinvio a “speciali procedure previste dalle norme tributarie” appare, in linea di principio, ben più impreciso di quello verboso, eppur specifico, di cui all’art. 23 D.L. n. 34/2023.

Se mai, il vero punto dolente della nuova fattispecie risiede nel fatto che non tutti i commi della richiamata L. 197/2022 fanno riferimento a circostanze afferenti alla commissione dei reati ex artt. 10-bis, ter e quater c. 1 d.lgs. n. 74/2000. In altri termini, non tutte le procedure di “definizione agevolata” richiamate dalla norma sono, in realtà, applicabili al procedimento penale. Ne rimangono, ad esempio, estranee: i) le procedure di definizione di irregolarità formali (L. 197/2022, art. 1, co. 166-173); ii) le disposizioni di cui ai commi 227-230, relative alla rottamazione delle cd. mini cartelle esattoriali (connesse, ad esempio, a violazioni del Codice della Strada). Due riferimenti, questi ultimi, del tutto impropri, poiché in nessun caso attinenti a misure di definizione agevolata incidenti, direttamente o indirettamente, sul procedimento penale.

Si è, purtroppo, in presenza di chiari indici di grossolanità nella strutturazione della norma. Il legislatore, spinto dalla necessità, vera o presunta, di favorire la tregua fiscale, ha indicato una lunga lista di “procedure” tributarie, senza curarsi di precisare quali siano pertinenti e rimettendo alla sensibilità dell’interprete l’individuazione delle une e delle altre. Pertanto, ciò che più appare criticabile è l’incauto utilizzo dello strumento penale per finalità prettamente contingenti, in assenza di coordinamento normativo e di visione d’insieme.

Su un primo versante, come anticipato, il legislatore ha completamente omesso di regolare il rapporto tra la nuova clausola e la preesistente di cui all’art. 13. Invero, quest’ultima appare fin d’ora già sterilizzata: il pagamento anticipato non offre più alcun vantaggio, dal momento che l’effetto estintivo può essere raggiunto, senza oneri aggiuntivi, all’esito dei gradi di merito. Un simile slittamento in avanti del termine è non solo più favorevole dal punto di vista economico ma anche (e soprattutto) potrebbe fungere da pericoloso incentivo alla resistenza in giudizio ad ogni costo.

E ancora: il contribuente-imputato non avrà più alcun interesse a definire la propria posizione prima del dibattimento, o a non proporre appello. Sarà dunque ben possibile attendere (e promuovere) lo svolgimento del giudizio, riservandosi la exit strategy fino all’ultimo momento utile. Una volta esaurito l’effetto sui giudizi attualmente pendenti, dunque, non può non dubitarsi dell’effettiva utilità deflattiva della nuova clausola di non punibilità, la cui concreta operatività appare opposta e contraria ai suoi dichiarati fini.

In secondo luogo, imprecisa e frettolosa risulta la disciplina del pagamento rateale. Nel caso in cui il contribuente aderisca a questa tipologia di pagamento, infatti, egli “dà  immediata  comunicazione,  all’Autorità giudiziaria che procede […] del versamento della prima  rata  […] Il  processo  di  merito  è  sospeso  dalla  ricezione  delle comunicazioni[…] sino al momento in cui il giudice è informato dall’Agenzia delle entrate della corretta definizione della procedura […] della mancata  definizione  della   procedura   o   della   decadenza   del contribuente dal beneficio della rateazione”.

Il paradosso, neppure troppo velato, è che una norma strutturata per ridurre il carico dei tribunali ordinari generi, in caso di pagamenti rateali, un numero indeterminabile di procedimenti sospesi, per anni e anni, in cui i giudici – ferma la sola possibilità di acquisire le prove ex art. 392 c.p.p. – sarebbero di fatto ridotti al ruolo di meri certificatori (per non dire di “passacarte”) nel rapporto tra contribuente ed Amministrazione.  

Che questa “eterna” attesa di comunicazioni, di buzzatiana memoria, possa giovare, nel lungo periodo, all’efficientamento della giustizia penale è circostanza di cui è (sin d’ora) più che ragionevole dubitare.

Autore Stefano Gerunda

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Autore Roberto Saglimbeni

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