La corruzione è, senza ombra di dubbio, uno dei fenomeni maggiormente lesivi della sfera pubblica e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, creando un notevole pregiudizio per i cittadini.
Non a caso, la capillarità del fenomeno corruttivo in Italia – la cui entità è emersa in tutta la sua GRAVITÀ’ nel periodo dell’inchiesta “Mani Pulite” – ha reso il nostro paese uno dei più avanzati in tema di contrasto alla corruzione. Ciò sia dal punto di vista normativo, sia giurisprudenziale.
Per quanto riguarda l’aspetto normativo, le fattispecie incriminatrici principali si individuano nei reati previsti dagli articoli 318 c.p. – disciplinante la corruzione per l’esercizio della funzione, anche detta “corruzione impropria” – e 319 c.p., disciplinante la c.d. “corruzione propria”.
La prima punisce l’accordo tra soggetto privato e pubblico ufficiale, finalizzato ad ottenere illecitamente da quest’ultimo un atto del suo ufficio. In questo caso, il disvalore giuridico risiede nel fatto che il pubblico ufficiale riceve un compenso illecito per un’attività che era già dovuta dal suo ufficio, compromettendo la fiducia che i cittadini ripongono nella neutralità della P.A.
La seconda fattispecie, certamente più intuitiva, sanziona l’accordo finalizzato ad indurre il pubblico ufficiale ad omettere un atto dovuto dal proprio ufficio o, addirittura, a porre in essere atti contrari ai propri doveri.
Vien da chiedersi, quindi, come tale distinzione si declini in concreto. Ciò, in particolare, nel caso in cui la specifica normativa amministrativa conceda ampi margini di discrezionalità al pubblico ufficiale e questi – seppur abbia aderito ad un accordo corruttivo – abbia comunque realizzato l’interesse della P.A.
Al riguardo, è recentemente intervenuta la Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. VI, 16 gennaio 2025 n. 1909).
Il caso deciso dagli ermellini riguardava una condanna a carico di plurimi soggetti per il delitto di cui all’art. 319 c.p. Tra i molti illeciti contestati, nello specifico, veniva rimproverato ad alcuni imprenditori di aver eseguito il pagamento di somme di denaro in favore di un sindaco in cambio di favori amministrativi e vantaggi per una società aggiudicataria di un appalto pubblico.
Avverso la sentenza dei Giudici di merito proponevano ricorso gli imputati.
La Cassazione, accogliendo il ricorso, ha evidenziato come “l’accettazione di un’indebita remunerazione integra la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319, cod. pen.) se, in concreto, l’esercizio dell’attività del pubblico funzionario sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare. Occorre, cioè, in altri e più semplici termini, accertare se l’atto sia stato posto in essere in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale e se il pubblico agente, pur muovendosi nei confini di tale potere, abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’ interesse del privato corruttore; diversamente, qualora non sia stato violato alcun dovere specifico e l’atto compiuto realizzi ugualmente l’ interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, si DEVE RITENERE integrato il reato di cui all’art. 318, cod. pen.”.
La distinzione tra la configurabilità del delitto di corruzione propria e impropria non è di poco conto. Sul punto, bisogna considerare, infatti, il grande divario dei limiti di pena edittali (minimi e massimi) previsti dalle due norme.