La confisca rappresenta una delle misure più incisive nel contesto della lotta ai reati finanziari, finalizzata a privare i soggetti coinvolti dei profitti illeciti. Lo Stato, infatti, non può permettere che beni di provenienza delittuosa possano rimanere in circolazione, atteso che ciò “inquinerebbe” l’economia.
Nei casi di riciclaggio, autoriciclaggio, impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita, accanto alla confisca che colpisce il patrimonio della persona fisica – rappresentante legale o altro soggetto apicale che abbia commesso il fatto -, l’ordinamento prevede misure specifiche anche a carico degli enti imputati per tali delitti ai sensi del D.Lgs. 231/2001.
Un tema di grande rilevanza riguarda proprio la determinazione del quantum “confiscabile” a carico della società coinvolta nel procedimento penale, in relazione al quale si è recentemente pronunciata la Cassazione.
Nello specifico, nel caso sottoposto alla Suprema Corte, il GIP milanese condannava, tramite patteggiamento, il legale rappresentante di una galleria d’arte ai sensi dell’art. 648 e 648 ter.1 c.p., commessi tramite la cessione a terzi di un dipinto rubato e successivamente ricettato. Veniva altresì condannata anche la società gestrice della galleria d’arte per la violazione dell’art. 25 octies D.Lgs. 231/2001.
Contestualmente, il Giudice disponeva la confisca del profitto del reato e dell’ illecito amministrativo, quantificato in euro 750.000,00, ai sensi degli artt. 648 quater c.p. e 19 D.Lgs. 231/2001.
Avverso la sentenza di patteggiamento proponeva ricorso per Cassazione sia il legale rappresentante della galleria, sia la società condannata.
Ebbene, secondo la difesa, il provvedimento impugnato errava a ritenere che il profitto del reato corrispondesse all’ammontare della intera somma incassata dalla vendita del dipinto. Gli imputati sostenevano nei loro ricorsi che da tale somma dovesse essere scomputato il costo dell’acquisto del quadro, il quale costituirebbe tuttalpiù il prodotto, prezzo o profitto del delitto di ricettazione, rimanendo estraneo al delitto di autoriciclaggio.
La Corte con sentenza Cass. pen., Sez. II, Sentenza, 29/01/2025, n. 4753 ha respinto la tesi difensiva.
Dapprima, la Corte ha chiarito la differenza tra prodotto, prezzo e profitto del reato, definizioni spesso utilizzate dal legislatore in tema di confisca:
“a) il prodotto del reato è costituito dalle cose create, trasformate o acquisite mediante esso, dunque, è il risultato empirico del reato, ciò che l’agente ottiene direttamente dalla attività illecita posta in essere;
b) il profitto è il beneficio patrimoniale, l’utile, il lucro, il vantaggio economico che si ricava dal reato, in via diretta ovvero indiretta o mediata;
c) il prezzo, infine, è costituito dal compenso o dall’utilità dati o promessi per la commissione del reato”.
Ciò posto, il Supremo Consesso ha affermato che, nel caso di autoriciclaggio, si è in presenza di un cosiddetto reato-contratto, atteso che è lo strumento negoziale ad essere integralmente contaminato da illiceità. Di talché “il profitto confiscabile ai sensi dell’art. 648-quater c.p. e dell’art. 19 D.Lgs. n. 231/2001 include l’intero ricavato dell’operazione illecita, senza deduzione dei costi sostenuti per l’acquisizione dei beni oggetto di riciclaggio”.
La Corte, infine, ha analizzato l’obbligatorietà della confisca disposta a carico dell’ente ai sensi del D.Lgs. 231/2001, il cui ammontare non sarebbe nella disponibilità delle parti in sede di patteggiamento e che deve essere applicata dal Giudice anche laddove non sia stata oggetto di accordo tra P.M. e società imputata.