La Corte di Cassazione ha, di recente, affrontato il tema dell’importanza del profilo professionale ricoperto dal lavoratore nell’esame della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all’infrazione commessa.
In sostanza, uno stesso comportamento potrebbe essere ritenuto più grave a seconda di chi lo ponga in essere.
Nel caso esaminato dai giudici di legittimità, la lavoratrice ricorrente rivestiva la qualifica di gerente di un negozio dedicato alla vendita di abbigliamento e tessuti.
Dunque, le mansioni di gerente svolte dalla dipendente avrebbero richiesto un livello di diligenza e fedeltà maggiore rispetto a quello pretendibile dai suoi colleghi di livello inferiore.
Tuttavia, nonostante le maggiori responsabilità connesse al predetto ruolo, emergeva un atteggiamento da parte della lavoratrice di consapevole sfruttamento della propria posizione gerarchica, con connotazione negativa dei comportamenti attuati.
Ad avviso della Suprema Corte, in ipotesi del genere, la condotta del lavoratore non può che essere analizzata anche alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere, per gli altri dipendenti dell’impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto degli obblighi di diligenza e fedeltà.
Di conseguenza, gli Ermellini hanno confermato la piena legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato dal datore di lavoro, il quale aveva giustamente tenuto conto, nelle contestazioni disciplinari elevate alla lavoratrice, della particolare responsabilità e del più intenso obbligo di diligenza derivanti dalle mansioni di gerente di un punto vendita.
In conclusione, in virtù dell’orientamento di legittimità appena esaminato, la valutazione della condotta oggetto di licenziamento per giusta causa deve essere valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva.
06.12.2024
