La sentenza che verrà di seguito esaminata si inserisce in un contesto giuridico particolarmente rilevante per la categoria degli avvocati e più in generale per il mondo del lavoro autonomo, affrontando la questione della natura dell’attività prestata dai professionisti legali all’interno degli studi di grandi dimensioni.
La Corte, infatti, si è trovata ad esaminare una controversia relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro di un avvocato e alla presunta subordinazione di quest’ultimo.
In particolare, il caso riguardava un avvocato legato da un rapporto di collaborazione con uno studio legale, al quale forniva prestazioni professionali, con una modalità che il professionista riteneva essere più affine a un contratto di lavoro subordinato.
Il lavoratore riteneva sussistenti tutti gli indici della subordinazione, tra cui: l’esercizio da parte dello studio di un forte potere conformativo, la regolarità delle prestazioni, l’assenza di un’autonomia organizzativa e la previsione di un compenso fisso.
La Corte di Cassazione, nel decidere la questione, ha escluso che il rapporto di lavoro tra l’avvocato e lo studio fosse di tipo subordinato, precisando che, nel corso di oltre tredici anni di durata del rapporto, l’attività era stata svolta in modo libero, autonomo e indipendente, pur in presenza di regole necessarie al coordinamento dell’attività stessa con quella dello Studio.
Invero, gli Ermellini hanno osservato che:
– la ricorrente assumeva iniziative personali ed esprimeva proprie considerazioni sulle questioni trattate, oltre ad essere interpellata personalmente, e a volte anche esclusivamente, sia dai clienti e sia dai procuratori delle controparti;
– i pareri trasmessi ai colleghi erano sottoscritti unicamente dalla ricorrente;
– l’organizzazione imposta ai collaboratori dello Studio rispondeva essenzialmente all’esigenza di coordinamento dell’attività dei numerosi professionisti coinvolti, conclusione avvalorata dal fatto che le regole valevano per tutti i professionisti dello Studio, compresi i soci;
– anche l’obbligo di esclusiva rispondeva alle esigenze di coordinamento dell’attività dei tanti professionisti e trovava una plausibile spiegazione, all’interno della cornice del coordinamento, nello scopo di evitare conflitti di interesse;
– le tempistiche lavorative non erano espressione di un potere conformativo dello Studio sulla prestazione professionale della ricorrente ma dipendevano, piuttosto dalla necessità, insita nell’attività di avvocato, di rispettare i termini processuali e le cadenze temporali imposte dalle scelte e dalle richieste dei clienti;
– il badge utilizzato dalla ricorrente aveva la sola funzione di chiave di accesso ai locali dello Studio e la compilazione dei time sheet, richiesta a tutti i professionisti dello Studio, soci compresi, rispondeva a mere esigenze di natura contabile, non nascondendo alcuna forma di controllo sui tempi dell’attività svolta;
– la disposizione del regolamento in punto di ferie non prevedeva alcuna autorizzazione del piano ferie, predisposto in base alle indicazioni fornite dai singoli professionisti, e consentiva a tutti di sapere chi fosse presente in studio e chi no in una certa data;
– infine, la previsione di un compenso fisso mensile era inidonea ad incidere sull’inquadramento tipologico della fattispecie, sia per il rilievo pacificamente sussidiario di tale elemento nell’indagine sulla natura subordinata o autonoma di un rapporto, sia per l’accertamento sulla partecipazione degli avvocati dello Studio a quanto ricavato dalle pratiche relative ai clienti da ciascuno procurati, aspetto quest’ultimo proprio dell’esercizio della libera professione.
La sentenza della Corte di Cassazione n. 28274 del 2024 rappresenta un importante chiarimento in materia di lavoro autonomo, con specifico riferimento alla professione forense. Essa sottolinea la necessità di una valutazione caso per caso dei contratti di collaborazione tra avvocati e studi legali, evitando di ricondurre automaticamente sotto il regime del lavoro subordinato i contratti che presentano caratteristiche di continuità e regolarità nelle prestazioni e nelle retribuzioni.