12.06.2023 Icon

Ravensburger non può vendere il puzzle dell’Uomo Vitruviano senza permesso

La serie di puzzle “Art Collection” di Ravensburger è da sempre un passatempo molto popolare e comprende molti dei capolavori più famosi del mondo da Picasso ad Hayez, da Hokusai a Leonardo Da Vinci.

A tal proposito, il recente utilizzo, da parte di Ravensburger, di una riproduzionedell’Uomo Vitruviano di Da Vinci in uno dei suoi puzzle ha scatenato una feroce battaglia legale.

Il caso in questione è molto simile ad un’altra controversia riguardante la Venere di Botticelli ed il suo presunto “sfruttamento” per fini commerciali da parte della famosa casa di moda francese Jean-Paul Gautier, la quale infatti sta affrontando una causa per danni intentata dal Museo degli Uffizi la cui entità potrebbe superare i cento mila euro.

Entrambe si basano sul fatto che le opere d’arte al centro delle polemiche sono considerate beni culturali dalla legge italiana e di conseguenza sono soggette a restrizioni molto severe per quanto riguarda la loro riproduzione.

Nella presente controversia, i ricorrenti ossia le Gallerie dell’Accademia e il Ministero dei Beni Culturali, sostenevano che la riproduzione commerciale non autorizzata dell’opera di Da Vinci da parte di Ravensburger fosse dannosa per il bene artistico e violasse anche il concetto di libero accesso al patrimonio culturale.

Lo status di bene culturale

Come dimostra la sua costante riproduzione sulle monetine da 1 Euro, emesse per la prima volta in Italia dal 2002, l’Uomo Vitruviano è universalmente riconosciuto come uno dei simboli del patrimonio artistico-culturale italiano. Realizzato da Leonardo Da Vinci nel 1490, attualmente si trova, pur non essendo esposto pubblicamente, presso le Gallerie dell’Accademia a Venezia.

Il suo particolare status nella legislazione italiana deriva dall’articolo 2, comma 2, e dall’articolo 10 del Codice dei Beni Culturali, i quali stabiliscono quali siano i requisiti necessari a qualificare un’opera come bene culturale:

  • che sia attualmente conservata in una collezione pubblica;
  • che sia stata creata almeno 70 anni fa;
  • che l’autore sia un artista già deceduto.

Lo status peculiare dell’Uomo Vitruviano è stato recentemente sottolineato in una sentenza del 2019 del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto in merito al prestito dell’opera al Museo del Louvre di Parigi. Nella sentenza, l’opera è stata dichiarata portatrice di interesse culturale, artistico e storico, nonché parte integrante della tradizione, dell’arte, della storia e della ricerca scientifica italiana. La conseguenza dell’attribuzione di tale status ai sensi del Codice è l’applicazione della tutela prevista dagli articoli 107 e 108, che regolamentano in maniera stringente le eventuali riproduzioni del bene culturale in questione.

Davanti alla Corte

Nel caso in esame, la stessa Corte italiana che ha emesso la sentenza sopra citata sul particolare status dell’Uomo Vitruviano, ha deciso a favore dei ricorrenti.

Ha ritenuto, infatti, che vi fosse una violazione degli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali.

Un aspetto rilevante da notare è che il convenuto Ravensburger ha riconosciuto di non aver mai presentato alcuna richiesta di licenza di riproduzione, né di aver pagato i diritti di concessione che sarebbero stati normalmente dovuti.

La difesa del produttore di giocattoli era incentrata su tre elementi:

  • che l’opera d’arte in questione fosse di pubblico dominio da secoli;
  • che i requisiti di cui agli articoli 107 e 108 del suddetto Codice in materia di licenze di riproduzione e di pagamento dei diritti di concessione fossero in diretto contrasto con l’articolo 14 della direttiva UE 2019/790;
  • che la riproduzione fosse avvenuta al di fuori dell’Italia, quindi al di fuori della giurisdizione e dell’applicazione del Codice dei beni culturali italiano.

Per quanto riguarda gli argomenti (1) e (2), la Corte ha precisato che il recepimento della direttiva dell’UE nell’ordinamento interno italiano, ai sensi del Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 177, ha comportato l’inserimento di una clausola aggiuntiva sul patrimonio culturale, contenuta nell’articolo 32.

Tale clausola si applica specificatamente alla riproduzione di beni per fini commerciali inseriti nel novero del patrimonio culturale italiano, nel caso di una eventuale riproduzione a scopo di lucro. In sostanza, essa rimuove i benefici che deriverebbero dal pubblico dominio dell’opera, in primis quelli relativi alla libertà di riproduzione.

Pertanto, la Corte ha ritenuto che i requisiti del Codice per le licenze di riproduzione soggette al pagamento dei diritti di concessione potessero essere applicati al caso in questione, nonostante l’opera fosse di pubblico dominio, e che non vi fosse alcun conflitto tra gli articoli del Codice dei Beni Culturali e la Direttiva UE, data la disposizione aggiuntiva sul patrimonio culturale contenuta nell’articolo 32.

Per quanto riguarda invece l’elemento territoriale del punto (3), ci si chiedeva se la Corte adita fosse il foro più idoneo, dato che la violazione aveva avuto origine in Germania e nella Repubblica Ceca, dove i prodotti erano stati fabbricati, mentre il danno era stato subito dall’opera d’arte stessa e, di conseguenza, dal museo di Venezia, che secondo la legge italiana è il custode dell’opera per quanto riguarda la sua valorizzazione, la sua amministrazione e la sua riproduzione. Sulla base degli articoli 7, 8 e 35 del Regolamento UE 1215/2012 (concernenti la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale), il Tribunale ha ritenuto di essere il foro competente a pronunciarsi sulla controversia e che la sentenza dovesse essere applicata a tutte le giurisdizioni in cui opera il convenuto, anziché essere limitata alla sua filiale italiana, Ravensburger Italia S.r.l..

Uno sguardo alla decisione

È interessante notare come nel caso in esame il danno al bene culturale scaturisca dalla mera riproduzione a fini commerciali. Il degrado dell’opera in questo senso sarebbe costituito proprio dall’elemento di lucro in sé, in quanto esso violerebbe la libera accessibilità dell’opera, impedendone la fruizione strettamente personale, lo studio privato e la promozione non commerciale del patrimonio culturale italiano.

Inoltre, questa sentenza ha confermato che il potere di autorizzare e controllare la riproduzione dell’opera spetti al museo o all’ente culturale che detiene l’opera in custodia per conto del Ministero della Cultura. Anche le modalità e i termini di autorizzazione delle riproduzioni rientrano nella discrezionalità del detentore.

Infatti, le Gallerie dell’Accademia avevano già emanato un loro proprio regolamento denominato “Regolamento per la riproduzione dei beni culturali in consegna alle Gallerie dell’Accademia di Venezia”.

Il Tribunale di Venezia, perciò, all’esito del procedimento cautelare promosso dalle Gallerie dell’Accademia con il Ministero della Cultura, ha ritenuto che l’utilizzo e la riproduzione dell’immagine dell’ “Uomo Vitruviano” di Leonardo e del suo nome, quale bene culturale custodito ed esposto alle Gallerie dell’Accademia, costituisse un illecito oltre che degli artt. 6, 7 e 10 del Codice Civile, di quanto previsto nel “Regolamento per la riproduzione dei beni culturali in consegna alle Gallerie dell’Accademia di Venezia” in conformità agli artt. 107-109 del Codice dei Beni Culturali (d.lgs. 42/2004) e, in particolare, all’art. 108.

In particolare, il Tribunale ha disposto che: «Disposizione, questa, che demanda all’Amministrazione custode del bene culturale il potere di autorizzare/concedere la riproduzione dell’immagine del bene e di determinare i canoni di concessione e i corrispettivi della riproduzione tenuto conto a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente».

In forza di tale contesto normativo, i giudici hanno quindi ravvisato come la condotta contestata costituisse un «illecito determinante un danno risarcibile ex artt. 2043 e 2059 c.c., laddove il danno è costituito, in primo luogo, dallo svilimento dell’immagine e della denominazione del bene culturale (perché riprodotti e usati senza autorizzazione e controllo rispetto alla destinazione) e, in secondo luogo, dalla perdita economica patita dall’Istituto museale (per il mancato pagamento del canone di concessione e dei corrispettivi di riproduzione».

Il Tribunale ha ritenuto inoltre che potesse costituire un danno (non patrimoniale) irreparabile e imminente lo svilimento dell’immagine e del nome dell’opera in questione, determinato dal perpetuarsi dell’utilizzo incontrollato a fini commerciali della sua riproduzione, utilizzo avvenuto «senza il necessario e preventivo vaglio da parte dell’Amministrazione consegnataria circa l’appropriatezza della destinazione d’uso e delle modalità di utilizzo del bene in rapporto al suo valore culturale” e che pertanto giustifica (anche dal punto di vista del periculum in mora necessario) l’emanazione del provvedimento cautelare di condanna».

Conclusioni

L’ordinanza è stata anche l’occasione per ricordare come il Codice dei Beni Culturali italiano rappresenti un unicum a livello europeo proprio in considerazione del fatto che, con la sua adozione, il Legislatore ha inteso tutelare al meglio un interesse ritenuto essenziale per lo Stato italiano (notoriamente famoso in tutto il mondo soprattutto per il suo immenso patrimonio storico-artistico e culturale, valore costituzionale riconosciuto all’art. 9 Cost. e identitario della collettività in una dimensione di fruizione pubblica), divenendo dunque il rispetto delle disposizioni codicistiche assolutamente cruciale per la salvaguardia dell’interesse pubblico, tanto sociale quanto economico.

Autore Gaia Anna Lenoci

Stage

Milano

g.lenoci@lascalaw.com

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