La prosecuzione di un’impresa in stato di decozione costituisce fonte di responsabilità dell’amministratore per violazione del dovere di diligenza sullo stesso gravante.
Il principio si può evincere dalla sentenza n. 2234 pronunciata dal Tribunale di Torino ed emessa il 15 aprile 2024, a definizione di un giudizio intrapreso dalla curatela fallimentare di una società a responsabilità limitata nei confronti dei precedenti amministratori della stessa al fine di veder condannare questi ultimi al risarcimento del danno cagionato alla società (poi fallita) a causa degli innumerevoli atti di mala gestio posti in essere.
Il Fallimento contestava, in particolare, la tenuta di alcune condotte (quali una simulazione di affitto d’azienda) gravemente pregiudizievoli per la società – oltre che, come accertatosi in un parallelo giudizio, penalmente perseguibili – che avevano aggravato lo stato di dissesto della stessa, poi sfociato nella dichiarazione di fallimento della medesima. Sul punto, basti sapere che gli amministratori convenuti, con il fraudolento intento di “salvare” la società che versava in pessime condizioni economiche, avevano costituito appositamente una nuova società, alla quale avrebbero “dovuto” trasferire, in tutto o in parte, l’azienda riconducibile alla società decotta; tuttavia, detto trasferimento non fu mai concretizzato.
Accertate le varie ed ulteriori condotte negligenti e fraudolente poste in essere dai convenuti, il Tribunale sosteneva che “la prosecuzione con una nuova società di un’impresa in stato di decozione, senza affrontare e risolvere le cause che hanno determinato la crisi” costituisce un’operazione – purtroppo frequente – che, nonostante il principio dell’insindacabilità nel merito delle scelte gestorie, comporta la responsabilità degli amministratori per il pregiudizio arrecato alla società, poiché si tratta di un’operazione “compiuta senza alcuna diligenza nel preventivo apprezzamento dei margini di rischio”.
Ferma restando, infatti, l’applicabilità della cd. business judgement rule che, di fatto, impedisce al giudice di sindacare, nel merito, le scelte di gestione poste in essere degli amministratori (e, dunque, la loro opportunità e convenienza), ai sensi dell’art. 2392 c.c. – pacificamente applicabile anche alle società a responsabilità limitata – su questi ultimi incombe un generale obbligo di diligenza, tant’è che il 1° comma di detto articolo recita testualmente che gli “amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”.
Conseguentemente, la violazione di tali obblighi di diligenza può senz’altro costituire una fonte di responsabilità per gli amministratori; nel caso in esame, infatti, il Tribunale condannava gli ex amministratori convenuti al risarcimento del danno cagionato alla società fallita attraverso le plurime condotte fraudolente poste in essere.
Nel motivare tale decisione, il Tribunale forniva, peraltro, un’interessante precisazione inerente la (ir)regolare tenuta delle scritture contabili, posto che la curatela fallimentare aveva, tra l’altro, contestato agli ex amministratori anche una irregolare tenuta della contabilità sociale ritenendola quale ulteriore fonte di responsabilità dei medesimi.
Sul punto, tuttavia, il Tribunale precisava che “la mancata o irregolare tenuta della contabilità, pur essendo un inadempimento dell’organo amministrativo … non è in sé causa di danno risarcibile, poiché la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, [ma] non li determina”. Pertanto, il “deficit patrimoniale” sarà da imputarsi agli accadimenti (magari condizionati dalle scelte dell’organo amministrativo), ma di certo non alla loro registrazione in contabilità.