Il Consiglio Notarile di Milano si è recentemente pronunciato in senso favorevole rispetto alla possibilità di inserire nello statuto delle società di capitali clausole che prevedono una soglia minima di quote o azioni che deve essere detenuta da ciascun socio.
Nella massima n. 202 del 5 luglio scorso, il Consiglio ha infatti stabilito che “sono legittime le clausole statutarie di s.p.a. e di s.r.l. che impongono un “tetto minimo” di possesso delle azioni o delle partecipazioni sociali. Esse possono essere configurate: (i) come regole di circolazione delle partecipazioni, che rendono il trasferimento inefficace nei confronti della società in tutti i casi in cui, per effetto del trasferimento, l’acquirente non consegua il possesso minimo ovvero il venditore lo perda; (ii) come regole che subordinano la legittimazione all’esercizio di parte dei diritti sociali alla titolarità di un numero di azioni o di una quota di partecipazione almeno pari o superiori al possesso minimo”.
Si deve, dunque, riconoscere l’ammissibilità delle suddette clausole, seppur limitatamente all’esercizio di alcuni diritti sociali, anche in considerazione del fatto che ad esse si può attribuire la funzione di evitare un’eccessiva frammentazione del capitale sociale, semplificando così la gestione organizzativa della società stessa.
Più precisamente, dalla massima notarile risulta che le clausole in esame possono configurare:
- un limite alla circolazione delle azioni, ammettendosi l’inefficacia del trasferimento nei confronti della società qualora l’acquirente non consegua il possesso minimo previsto dalla clausola ovvero il venditore lo perda;
- un requisito necessario per conseguire la legittimazione ad esercitare quei diritti sociali disponibili dall’autonomia statutaria, quali, ad esempio, i diritti di voto e di intervento in assemblea.
Diversamente, si ritiene inammissibile quella clausola che subordini il riconoscimento dello status socii al rispetto del limite minimo di possesso, in quanto, come chiarito dal Consiglio notarile milanese, “ci si troverebbe nella condizione di dover giustificare l’esistenza di una o più partecipazioni sociali (magari sottoscritte già prima dell’introduzione di una clausola del “tetto minimo”) che non consentono l’esercizio di alcun diritto, ponendosi un problema di giustificazione causale e di compatibilità con la disciplina societaria”.
Il Consiglio ha anche specificato che la delibera con la quale vengono introdotte nello statuto clausole aventi i contenuti in questione deve essere adottata con le maggioranze previste dalla legge o dallo statuto medesimo e, comunque, con il voto favorevole di quei soci che potrebbero, appunto, a seguito dell’introduzione del “tetto minimo”, subire una limitazione all’esercizio di taluni diritti sociali.
La massima ha senz’altro carattere innovativo, seppure nel nostro ordinamento fossero già rinvenibili altre specifiche ipotesi che prevedono un tetto minimo di partecipazione, tra le quali si possono menzionare, l’art. 30, comma 5-bisT.U.B., che prevede la possibilità di inserire nello statuto una clausola che richieda un numero minimo di azioni per essere socio di una banca popolare e l’art. 17 del D. Lgs. n. 175/2016, che con riferimento alle società a partecipazione mista pubblico-privata, stabilisce che il socio privato debba detenere una quota di capitale non inferiore al 30%.