20.06.2024 Icon

Patto parasociale: considerarlo tale, non è poi così banale…

In tema di governance societaria, una scrittura privata sottoscritta tra i soci può essere definita “patto parasociale” solamente quando le obbligazioni ivi contenute sono finalizzate a regolare il comportamento che i soci si vincolano a tenere nel momento in cui eserciteranno i poteri amministrativi loro spettanti all’interno della compagine sociale.

Il principio è stato recentemente ribadito dall’ordinanza n. 13561, emessa dalla Corte di Cassazione lo scorso 16 maggio, per mezzo della quale, quest’ultima si è pronunciata sulla qualificazione come “patto parasociale” data dalla corte territoriale ad una scrittura privata avente ad oggetto la condizione di efficacia della cessione di quote da parte di uno dei soci.

Sul punto, la Cassazione ha ritenuto errata la qualificazione effettuata dalla corte territoriale della scrittura privata conclusa tra i soci, in quanto priva dei requisiti per essere considerata come patto parasociale, poiché, con tale espressione si intende “quell’accordo contrattuale che intercorre tra più soggetti, finalizzato a regolamentare il comportamento futuro che dovrà essere osservato durante la vita della società o, comunque, in occasione dell’esercizio di taluni diritti derivanti dalle partecipazioni detenute”. Finalità disattesa dalla scrittura privata suddetta.

Nel nostro ordinamento, la validità del patto parasociale è regolata dall’art. 2341-bis c.c., ove è previsto che un simile accordo debba essere volto a stabilizzare gli assetti proprietari o la governance societaria attraverso l’esercizio del diritto di voto e/o la limitazione alla trasferibilità delle partecipazioni e/o l’esercizio di un’influenza dominante sulla società. Il patto parasociale costituisce, dunque, un accordo – distinto rispetto all’atto costitutivo ed allo statuto – con il quale i soci decidono di “tutelare più proficuamente i propri interessi”, regolando l’esercizio dei diritti e dei poteri loro spettanti in virtù della propria partecipazione al capitale sociale.

In ragione di ciò, la Cassazione ha sostenuto che per qualificare un accordo come “patto parasociale” occorre che il suo contenuto sia finalizzato a regolare il comportamento che i soci intendono tenere all’interno della società “nell’esercizio della funzione organica che essi svolgono per effetto della qualità rivestita”. Proprio quest’ultima condizione – ha precisato la Corte – è assolutamente necessaria per la qualificare una pattuizione come “patto parasociale”, ma non è sufficiente per ritenerla tale, poiché il contenuto della stessa deve, comunque, “essere riconducibile al perseguimento di quegli effetti di stabilizzazione della governance societaria cui si riferisce espressamente l’art. 2341-bis cod. civ., che ha stabilizzato la causa dei patti stessi, enucleandone le finalità” e, di conseguenza, definendo “l’ambito della relativa meritevolezza dell’interesse perseguito”.

In virtù di ciò, per quanto concerne il caso di specie, la Corte ha rilevato che l’oggetto dell’accordo controverso era costituito dalla condizione di efficacia dell’uscita dalla società di uno dei suoi soci; pertanto, la corte territoriale aveva sbagliato nel qualificarlo come “patto parasociale”, trattandosi di una questione che “nulla ha a che vedere con l’assetto dell’ente, né con l’esercizio dei diritti futuri spettanti ai soci all’interno della società”.

Autore Matteo Rebecchi

Associate

Bologna

m.rebecchi@lascalaw.com

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