Prima o poi doveva accadere: le misure a sostegno dell’economia varate gli anni scorsi si apprestano a presentare il conto.
Ad annunciarlo è uno studio elaborato da Temporary Manager che, in abbinato con l’allarme lanciato da Cerved secondo cui 100 mila imprese sarebbero a rischio default, scatta una fotografia impietosa dello stato in cui versa attualmente una parte del tessuto imprenditoriale italiano.
La totalità delle imprese che ha beneficiato della moratoria mutui ha chiesto (50%) o comunque ha intenzione di chiedere (50%) una rinegoziazione del debito che difficilmente verrà concessa.
Nel 30% dei casi, infatti, le istanze già proposte si sono scontrate con la ritrosia di un ceto bancario piuttosto restio a concedere nuove dilazioni.
Dalla medesima analisi emerge che il 16% delle aziende in moratoria non è in grado di onorare puntualmente i debiti pregressi, mentre il 28% dichiara che, sebbene con estrema difficoltà, vi riuscirà.
Un dato su tutti, però, deve far riflettere.
Nonostante il 39% delle imprese consideri come imminente il proprio ingresso in una situazione di stress finanziario, solamente l’1% dichiara che entro l’anno ricorrerà a procedure di composizione della crisi, mentre il 10% ne sta sondando l’opportunità.
Il che denota una certa diffidenza verso il CCII e, in particolare, nei confronti di alcuni istituti preesistenti e da esso inglobati, i quali hanno decisamente sottoperformato rispetto alle aspettative originarie[1].
Roberto La Caria (A.D. di Temporary Manager), nel commentare i risultati dello studio, ha affermato che “il problema principale, oggetto dell’allarme, riguarda imprese medio piccole o comunque prive di adeguati sistemi di controllo e di gestione (…)”, individuando la necessità di pianificare attentamente i flussi di cassa “(…) per capire se si è in grado di sostenere il debito.”
Da questo punto di vista, non ci si può esimere da formulare una nota di biasimo nei confronti degli imprenditori italici.
È infatti da circa tre anni che, in una prospettiva di progressiva riforma del diritto della crisi d’impresa, incombe su di loro l’obbligo di dotarsi di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati funzionali, da un lato, ad intercettare tempestivamente la crisi e, dall’altro, ad attivarsi senza indugio per farvi fronte.
Ciononostante, benché si sia già formata giurisprudenza severa nei confronti degli imprenditori inadempienti ad esso, l’obbligo di cui sopra è rimasto pressoché inattuato.
Nel frattempo, è entrata in vigore una nuova disciplina che, in un’ottica volta a valorizzare i sistemi di “early warnings”, attribuisce sempre maggiora rilevanza all’organo di controllo.
Tant’è che quest’ultimo, sia esso collegiale o monocratico, viene compreso tra i soggetti legittimati a depositare l’istanza di apertura della liquidazione giudiziale (ex fallimento).
Tenuto conto della funzione di vigilanza e di allerta cui riservata al collegio sindacale, la “minaccia” di esercitare tale prerogativa potrebbe indurre l’imprenditore ad attivare tempestivamente uno dei plurimi strumenti di regolazione della crisi previsti dal CCII, consentendo una gestione proattiva degli incagli.
Ciò in perfetta armonia con i principi espressi della Direttiva Insolvency secondo cui “I quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero inoltre prevenire l’accumulo di crediti deteriorati” che si sta profilando all’orizzonte, stante la crescita del tasso di default registrato nel corso del corrente anno tra le imprese[2].
[1] Al 07/10/2022 risultano essere state presentate 418 domande di accesso alla composizione negoziata a fronte delle 10.000 previste a seguito della sua entrata in vigore (https://dirittodellacrisi.it/file/fu2wdcohMlDLVTi024vC9nhNM3fnzyfiaLssui3A.pdf)
[2] https://www.cribiscreditmanagement.it/osservatorio-npe/stock-e-mercato-npe/stock-e-mercato-npe/