10.09.2024 Icon

Responsabilità per illegittimo pagamento di assegni bancari

La Corte d’Appello di Ancona, con la Sentenza n. 598 del 15 aprile 2024, torna a pronunciarsi su una questione che più che mai in questi anni risulta essere attuale: se la Banca incassa degli assegni contraffatti, chi ne risponde?

La sentenza citata, riportandosi ai principi già espressi dalla precedente giurisprudenza di legittimità e di merito, chiarisce che “la banca è tenuta a controllare l’autenticità delle firme apposte sugli assegni con la diligenza dell’accorto banchiere, ossia con la diligenza media richiesta a un operatore professionale del settore bancario, tenuto conto delle specifiche circostanze del caso concreto”.

Naturalmente, tale diligenza dovrà essere valutata dal giudice di merito – e dai periti che nominerà – che avranno l’arduo compito di esaminare se la falsificazione fosse rilevabile con un attento esame visivo o tattile dell’assegno – utilizzando mezzi e strumenti comuni e di agevole utilizzo – oppure se fosse necessario l’impiego di attrezzature sofisticate o di conoscenze specialistiche. Ne consegue che, se la falsificazione è rilevabile ictu oculi, sarà la Banca a dover risarcire il danno causato, in caso contrario, non potrà essere imputata all’istituto di credito alcuna responsabilità.

Al fine di un’analisi più organica della questione controversa, è opportuno eseguire una breve ricostruzione delle circostanze di fatto che hanno portato all’instaurazione del giudizio di responsabilità della banca per illegittimo pagamento degli assegni. In particolare, una Società, conveniva in giudizio l’istituto di credito che aveva incassato degli assegni recanti la firma apocrifa del rappresentante legale della Società stessa.

In primo grado, il Tribunale ravvisava la mancanza di responsabilità della banca, poiché l’incasso e la contraffazione degli assegni era stato posto in essere dalla sorella del legale rappresentante della Società, che risultava delegata allo svolgimento delle attività contabili/amministrative della Società stessa.

Infatti, dall’istruttoria e dalla documentazione probatoria emergeva che dell’attività economica e amministrativa della Società si era sempre occupata la sorella del rappresentante legale (ossia la contraffattrice), mentre quest’ultimo si preoccupava delle questioni relative alla produzione ed ai rapporti con clienti e fornitori e mai delle questioni contabili della Società. Quindi, la contraffattrice (che indisturbata incassava gli assegni da lei stessa falsificati) era la persona a cui, per le sue specifiche competenze, il legale rappresentante – nonché fratello – aveva delegato lo svolgimento di tutta l’attività amministrativo/contabile, oltre che la tenuta dei rapporti con i vari istituti di credito.

Per di più, nel giudizio di appello, appariva chiaro che il legale rappresentante della Società non aveva mai esercitato alcun controllo sullo svolgimento dell’attività della sorella, così come non aveva mai effettuato alcuna verifica della documentazione bancaria periodicamente trasmessagli dalla banca appellata. Da tali circostanze è stato, quindi, desunto che la contraffattrice, sia per le sue competenze specifiche che per lo stretto rapporto di parentela, godeva di una delega amplissima priva di qualsivoglia controllo, che includeva la gestione dei rapporti con gli istituti di credito.

A ciò si aggiunga, che le firme apposte non apparivano dissimili da quelle del rappresentante legale. Di conseguenza, i requisiti esteriori delle sottoscrizioni erano tali da non da non consentire con la particolare diligenza professionale richiesta al personale addetto alla cassa, di rilevare la falsità della firma apposta sui titoli, non potendo richiedersi alla banca una verifica puntuale mediante l’utilizzo di conoscenze teoriche e specifici criteri tecnici.

Pertanto, il giudice di seconde cure, riportandosi ai principi espressi dalla recente giurisprudenza di legittimità secondo la quale “la banca non è responsabile dei titoli di credito negoziati recanti firme apocrife se la contraffazione non sia rilevabile ictu oculi con diligenza media, ovvero con la normale diligenza esigibile da un funzionario di banca. Non è quindi tenuta ad adottare strumenti tecnici o meccanici sofisticati per il controllo dell’autenticità delle firme”, ha rigettato l’appello proposto, dichiarando l’insussistenza del nesso di causalità tra il fatto dannoso lamentato dalla Società e la condotta dell’istituto di credito che, nel pagamento dei titoli contraffatti, ha agito con la diligenza professionale richiesta.

Autore Francesca Albi

Associate

Milano

f.albi@lascalaw.com

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