01.07.2022 Icon

Npe, come gestirli? Ne discutono banche e servicer

Occorre agire tempestivamente, giocare d’anticipo ed investire nella formazione: questi sono stati i leitmotiv dell’UTP summit organizzato da Il Sole 24 Ore e al quale hanno partecipato i principali operatori del settore.

Alla domanda su come gestire la valanga di NPE che si profila all’orizzonte la risposta è stata pressoché unanime: la strategia vincente impone di anticipare il prima possibile l’intervento sul credito, ossia già nella fase stage 2.

Serrini (Prelios) ha sottolineato, infatti, che “quando il credito diventa UTP è molto più difficile per la banca concedere nuovo credito”. Sulla stessa linea Briozzo (Gardant) secondo cui occorre “intervenire velocemente per riportare i crediti ad una situazione performing”. Francesca Giani (Neprix) ha, invece, insistito sulla necessità di formare figure professionali dotate di competenze trasversali, oltre che in possesso di una visione a 360 gradi dell’impresa.  Senza trascurare l’esigenza di adottare una diversa tipologia di approccio: industriale per gli small ticket, che secondo Gilli (Intrum) saranno quelli destinati a crescere particolarmente, e sartoriale per i single name.

Nel corso del summit il timore e il pessimismo non hanno trovato spazio, anzi tutt’altro.

Castagna (Banco Bpm) ha escluso scenari catastrofistici: secondo lui il sistema ha dato buona prova di saper reggere le crisi per cui non c’è da preoccuparsi. Anche Gilli (Intrum) allontana qualsiasi timore “non si arriverà ad un tasso di default pari al 3%”, considera il sistema finanziario solido e per questo “in grado di digerire un aumento dei crediti deteriorati”.

Molta fiducia viene riposta nella “nuova cassetta degli attrezzi” messa a disposizione dal Legislatore, vale a dire il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, prossimo all’entrata in vigore e che dovrebbe favorire, al netto delle potenziali critiche, una gestione maggiormente efficace degli UTP, tenuto conto dell’importanza del fattore tempo.

Dopotutto, il CCII recepisce i principi espressi dalla Direttiva (UE) n. 1023/2019, che insistendo sui c.d. “early warning tools”, ha obbligato gli Stati membri ad introdurre strumenti volti a favorire l’emersione tempestiva della crisi d’impresa sulla base dell’assunto che “quanto prima un debitore è in grado di individuare le proprie difficoltà finanziarie, tanto maggiore è la probabilità per lui di evitare un’insolvenza imminente”, con conseguente vantaggio per tutti gli stakeholders.

Sullo sfondo, tuttavia, aleggiano i risultati di uno studio della CGIA di Mestre secondo cui a partire dal prossimo settembre, dopo un primo e secondo trimestre abbastanza silenti, si dovrebbe registrare una ripresa dei fallimenti (dal 15 luglio liquidazioni giudiziali) per poi assistere nel 2023 ad una vera e propria impennata.

C’è da fidarsi? 

I corsi e ricorsi storici difficilmente sbagliano: si è dovuto attendere quasi due anni dalla crisi del debito sovrano per giungere al picco dei fallimenti registrato nel biennio 2014-2015 per cui, verosimilmente, quest’autunno si manifesteranno le conseguenze della crisi pandemica del 2020.

Senza trascurare che secondo alcune ricerche (Cerved) alla fine del 2022 il tasso di default potrebbe raggiunge quota 3,8%, avvicinandosi a quello fatto segnare nelle precedenti tre grandi crisi che hanno caratterizzato i primi anni del terzo millennio (2001-2002 bolla dot.com, 2008-2009 Lehnam Brothers e 2011-2012 debito sovrano).

Se le prospettive sono queste ci aspetta un autunno caldo e, certamente, non a causa del riscaldamento climatico.

Frank Oltolini – f.oltolini@lascalaw.com

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