11.09.2024 Icon

Revocatoria: il gravoso onere della prova in capo al Curatore

Il curatore del fallimento che intenda promuovere (o, come nel caso in esame, eccepire) la revoca ordinaria di un atto dispositivo compiuto dal debitore poi fallito, a norma degli artt. 66 l.fall. e 2901 c.c., per dimostrare la sussistenza dell’eventus damni ha, dunque, l’onere di provare tanto la preesistenza di ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole, quanto il mutamento qualitativo o quantitativo che il patrimonio del debitore ha subito per effetto di tale atto.

Cass., Sez. I, 25 luglio 2024, n. 20801

Il provvedimento oggi in commento, ottenuto nell’ambito di un giudizio seguito dallo Studio, affronta il noto tema dell’onere della prova gravante sul Curatore in tema di revocatoria ordinaria dell’ipoteca.

Nel caso di specie, nell’ambito della verifica crediti, il Fallimento aveva ammesso la banca in via chirografaria revocando la garanzia ipotecaria, sul rilievo che il mutuo fondiario era stato integralmente utilizzato per estinguere la preesistente esposizione chirografaria della società nei confronti della banca mutuante, integrando gli estremi della garanzia per debito preesistente.

Inoltre, veniva esclusa dal passivo la quota interessi del mutuo, in ragione dell’indeterminabilità degli stessi, difettando nel contratto la previsione della base, 360 o 365, del tasso Euribor previsto.

Anche in sede di opposizione allo stato passivo, il Tribunale aveva ritenuto sussistente l’eventus damni – elemento essenziale per l’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. – in forza del solo fatto che il credito chirografario della Banca, a seguito dell’operazione negoziale posta in essere, era stato garantito dall’iscrizione di un’ipoteca, con conseguente asserita lesione della par condicio creditorum e revoca dell’ipoteca volontaria.

Ricorrendo in Cassazione, la banca ricordava come il Curatore, allorché eserciti l’azione revocatoria ordinaria, anche se in via di eccezione come nel giudizio di opposizione al passivo, fosse, invece, gravato dell’assolvimento di specifici e gravosi oneri probatori.

In particolare, quanto all’eventus damni, il Curatore deve allegare cumulativamente la consistenza dei crediti vantati dai creditori ammessi successivamente al passivo fallimentare, la sussistenza, al tempo del compimento del negozio, di una situazione patrimoniale della società idonea a compromettere la realizzazione dei crediti sociali e il mutamento qualitativo o quantitativo della garanzia patrimoniale generica, rappresentata dallo stesso patrimonio sociale, così come determinato per effetto dell’atto dispositivo rispetto al quale si agisce in revocatoria.

La Cassazione ha illustrato come “il presupposto oggettivo dell’azione revocatoria ordinaria è costituito, anche in caso di atto gratuito, come la concessione di un’ipoteca per debito preesistente, dal pregiudizio che l’atto arrechi alle pretese vantate da uno o più creditori nei confronti del debitore che ha compiuto l’atto dispositivo, che si verifica quando, a seguito del compimento dello stesso da parte del debitore il patrimonio di quest’ultimo sia diventato, sul piano quantitativo o qualitativo, tale da rendere impossibile ovvero più incerta o difficile l’integrale soddisfazione dei diritti di credito vantati nei suoi confronti, sempre che, prima dell’atto di disposizione compiuto dal debitore, tale soddisfazione fosse, almeno in parte, concretamente possibile.”.

Pertanto, è il Curatore ad avere l’onere (non assolto nel caso di specie) di provare che il patrimonio residuo del debitore poi fallito, a seguito del compimento dell’atto e delle modifiche quantitative o qualitative ad esso apportate, era di natura o dimensione tali da rendere impossibile ovvero più difficile il soddisfacimento dei creditori preesistenti.

Infine, la Cassazione ha ribaltato la pronuncia di primo grado anche con riferimento all’esclusione degli interessi disposta in ragione della nullità della relativa clausola dovuta alla mancata indicazione del divisore.

Infatti, l’indeterminatezza della misura della pattuizione relativa agli interessi convenzionali dev’essere colmata, al pari del caso di mancata pattuizione degli stessi, facendo applicazione del criterio integrativo previsto dall’art. 117, comma 7, lett. a) del TUB, il quale, sostituendo di diritto la clausola difforme apposta dalle parti, dev’essere riconosciuto dal giudice anche d’ufficio, a prescindere dalla proposizione di una domanda in tal senso della parte In conclusione, la Suprema Corte, accogliendo i motivi di ricorso della Banca, ha cassato con rinvio il decreto del Tribunale di Macerata.

Autore Lodovico Dell’Oro

Associate

Milano

l.delloro@lascalaw.com

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