Il risanamento, che sia tale da giustificare misure che impediscano ai creditori di esercitare i propri diritti, deve consistere in un reale superamento della crisi finanziaria ed industriale, il quale consenta di mantenere la continuità aziendale, mentre non può risolversi in soluzioni che conducano alla liquidazione dell’impresa.
Così il Tribunale di Roma si è pronunciato rigettando il reclamo proposto da una società avverso il decreto con cui era stata già negata la concessione delle misure protettive nell’ambito della composizione negoziata della crisi.
Lo scopo della composizione è, infatti, quello di favorire l’emersione più anticipata possibile della crisi d’impresa, al fine di attuarne il possibile risanamento quando la situazione finanziaria non risulti ancora irrecuperabile.
Al percorso della composizione, come noto, si possono affiancare, su richiesta del debitore, le misure protettive volte a ostacolare temporaneamente le iniziative dei creditori. Tale incisione dei diritti di questi ultimi viene sottoposta al vaglio del Giudice, che deve verificare la situazione di squilibrio economico-finanziario e l’effettiva possibilità di risanamento dell’impresa.
Le misure protettive, fortemente incisive sui diritti dei creditori, si giustificano nella sola prospettiva del recupero dell’efficienza imprenditoriale. La legge richiede, infatti, che il debitore attui un’azione risanatrice connotata da realismo ed effettività, evitando ostruzionismi e abusi.
Il ricorso per la conferma delle misura protettive deve essere, quindi, supportato da un progetto economico finanziario e da un’attestazione di risanamento che deve consentire al Giudice una valutazione di possibile riuscita e uscita dalla crisi.
Non possono, al contrario, essere adottate soluzioni che conducano alla liquidazione dell’impresa, la cui strada può essere intrapresa con il concordato preventivo, non con la composizione negoziata.
Nel caso di specie, la debitrice propone di soddisfare il maggior creditore (con un credito superiore alla metà del totale delle passività) con la cessione dei propri impianti trascorsi cinque anni di piano, sostanzialmente liquidatorio. Tuttavia, una sentenza arbitrale esecutiva statuiva già il trasferimento a detto creditore della proprietà delle aziende, che erano sin da subito destinate al patrimonio del creditore.
Secondo la ricostruzione offerta dal Tribunale, è chiaro come il piano della debitrice sia volto unicamente a impedire la consegna al creditore dei propri impianti.
Pertanto, non essendo le misure protettive proporzionali al pregiudizio arrecato ai creditori, esse non possono essere concesse.