26.06.2024 Icon

Fallimento del socio (non troppo) occulto o (troppo) apparente

La Suprema Corte di Cassazione si è recentemente espressa, in conformità con l’orientamento ormai costante in materia, sulla possibilità di estendere gli effetti della declaratoria di fallimento ex art. 147 L.F. anche al socio occulto o apparente di una società di persone.

Innanzitutto, al fine di meglio comprendere la portata della decisione, è necessario fornire una breve disamina dei fatti di causa.

Successivamente alle indagini svolte in seguito all’accettazione dell’incarico, il curatore, con ricorso ex art. 147, comma 4, L.F. depositato tre anni dopo la declaratoria di fallimento della società, ha richiesto al tribunale fallimentare l’estensione degli effetti del fallimento anche al socio accomandatario che – formalmente – aveva nove anni prima cessato la propria partecipazione sociale ma de facto aveva continuato a rivestire il ruolo di socio illimitatamente responsabile all’interno della società, peraltro mantenendo il proprio nome e cognome nella ragione sociale.

Invero, il tribunale fallimentare ha ritenuto tale comportamento come un elemento di esteriorizzazione ai terzi del vincolo societario e di affectio societatis, in palese contrasto con le previsioni normative (una su tutte, l’art. 2314 c.c.).

Di contro, le ragioni a fondamento delle eccezioni – nonché dei successivi motivi di impugnazione – formulate dal socio cessato erano tutte riconducibili all’asserita decadenza del termine per la richiesta di estensione da parte del curatore essendo decorso il termine di un anno (di cui all’art. 147, comma 2, L.F.) dalla sua cessazione dalla carica di “socio accomandatario” della società.

Le decisioni dei primi due gradi di giudizio sono state assolutamente univoche, disponendo il fallimento “per estensione” del socio apparente con conseguente soccombenza di quest’ultimo.

La Suprema Corte, in continuità con il costante orientamento sul punto, ha confermato la sentenza di secondo grado fornendo la seguente massima:
Ai fini della assoggettabilità al fallimento del socio apparente di una società di persone, in conseguenza del fallimento della società, non occorre la dimostrazione della stipulazione e dell’operatività di un patto sociale, ma basta la prova di un comportamento del socio tale da integrare la esteriorizzazione del rapporto, ancorché inesistente nei rapporti interni, a tutela dei terzi che su quella apparenza abbiano fatto affidamento”.

I Giudici di legittimità, per la risoluzione della controversia, hanno ritenuto infondati i motivi del ricorso ex art. 360 c.p.c. in quanto la sentenza della Corte d’Appello è stata considerata senz’altro conforme alle norme che regolano la fattispecie accertata in fatto dal giudice di merito: la ratio risiede nel fatto che, nelle società di persone, l’assoggettabilità al fallimento del socio apparente in conseguenza del fallimento della società è motivata dal fatto che quest’ultimo, pur non essendo più socio, abbia nondimeno acconsentito il mantenimento del proprio nome nella ragione sociale, ingenerando confusione sul ruolo da lui ricoperto e violando, dunque, la tutela dei terzi su quella apparenza cui abbiano fatto affidamento.

La Suprema Corte si è altresì soffermata sulla portata dell’art. 2314 c.c., dimostratasi determinante per la risoluzione della presente controversia, la quale recita che “l’accomandante, il quale consenta che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali”. La norma in esameè, infatti, volta a tutelare l’affidamento dei terzi creditori nella responsabilità illimitata di chi, quale socio accomandante ovvero, come nella specie, di socio accomandatario cessato per morte, recesso o (può aggiungersi) cessione della quota (art. 2292, comma 2, richiamato dall’art. 2314 c.c. in materia di società in accomandita semplice), abbia, tuttavia, consentito di presentarsi ai terzi – pur non essendolo più – alla stessa stregua di un socio illimitatamente responsabile (art. 2291, comma 1, e 2314, comma 1, c.c.) e cioè, nella società in accomandita semplice, di un socio (attualmente) accomandatario (cfr. Cass. n. 30882 del 2018).

In ultimo, quanto all’asserita decadenza del termine per l’estensione degli effetti del fallimento al socio apparente, la S.C. ha ribadito che, in tema di società di persone, il termine annuale previsto dall’art. 147, comma 2, L.F., decorre solo dall’iscrizione nel registro delle imprese dei fatti determinanti la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile (cfr. Cass. n. 22661 del 2021), come l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto che rimuove dalla ragione sociale l’indicazione del nome del socio accomandante o, come nel caso in esame, del socio accomandatario cessato.

Ne deriva che non vi è alcuna preclusione, nel caso di specie, all’estensione degli effetti del fallimento al socio apparente o occulto in quanto lo stesso è da considerarsi ancora formalmente all’interno della compagine societaria visto che la ragione sociale continua ad indicare le sue generalità.

Autore Matteo Stroppa

Trainee

Milano

m.stroppa@lascalaw.com

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