Con ordinanza del 23 maggio 2024 la Prima Sezione della Corte di Cassazione afferma il seguente principio di diritto: «in tema di fusione per incorporazione, la società incorporata, qualora insolvente, è assoggettabile a fallimento, ai sensi dell’art. 10 l.fall., entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese».
La vicenda da cui trae origine la decisione della Suprema Corte riguarda una società per azioni, che – colpita da un sequestro, poi annullato – decide di realizzare un’operazione straordinaria di fusione per incorporazione in altra società, che ha assunto poi diversa denominazione.
Il Pubblico Ministero chiede al Tribunale di Catania la dichiarazione di fallimento della incorporata e la ottiene; la fallita impugna la sentenza ai sensi dell’art. 18 l. fall., ma la Corte di Appello rigetta l’impugnazione.
Avverso la sentenza di rigetto l’incorporata promuove ricorso per Cassazione, fondandolo su tre motivi di diritto: i primi due (i.e., violazione e falsa applicazione degli artt. 10 l. fall., 2495 e 2504-bis c.c. e violazione e falsa applicazione degli artt. 5 l. fall. e 2504-bis c.c.,) sono stati analizzati congiuntamente e rigettati, con conseguente assorbimento del terzo (i.e., violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.).
Il ricorrente richiama l’orientamento inaugurato da Cass. SS. UU. n. 21970/2021 – a mente del quale “La fusione per incorporazione estingue la società incorporata (…)” e che ha “rivitalizzato” la lettura dell’istituto della fusione societaria quale vicenda non già evolutivo-modificativa, bensì estintivo-successoria (rispetto al precedente e contrario orientamento espresso da Cass., SS.UU. n. 2637 del 8.02.2006) – sostenendo che lo stesso mancherebbe “di confrontarsi col dato caratteristico e proprio della fusione, che è quello di comportare l’assegnazione di masse patrimoniali – ovvero quote di patrimonio funzionalizzato, ordinate secondo un criterio di appostazione e valutazione contabile che si perpetua, salvo deroghe espresse, nell’ente risultante dall’operazione – e non di semplici beni o insiemi di beni“.
Continua il ricorrente assumendo come sarebbe da verificare “se il presunto effetto estintivo a carico della incorporata e la conseguente sua cancellazione dal registro delle imprese corrispondano in tutto all’ ipotesi ordinaria di cancellazione prevista dall’art. 2495 c.c., oppure integrino un fenomeno peculiare, equiparabile ad una cancellazione puramente “tecnica”, come tale inidonea ad innescare l’applicazione dell’art. 10 l. fall.“. Ciò in quanto tale norma prenderebbe in considerazione un fenomeno (i.e., la cessazione dell’attività di impresa) non ravvisabile nella fusione, che – contrariamente a quanto accade in caso di scioglimento e liquidazione della società – avrebbe “un significato opposto: non l’uscita dal mercato, ma la permanenza dei soci sul medesimo, sia pure in forme diverse“.
Quanto riportato condurrebbe – sempre secondo il ricorrente – alla conclusione per cui “il presupposto applicativo uniforme degli artt. 10 e 11 l. fall. sia rappresentato dall’esigenza di scongiurare l’improvviso venir meno della tutela concorsuale del ceto creditorio che potrebbe verificarsi – in assenza delle richiamate norme speciali – per effetto della intervenuta cessazione dell’attività di impresa, oppure del venir meno, quale centro di imputazione di tale attività, di un soggetto suscettibile di fallimento“; esigenza che, invece, “non si pone in caso di fusione tra società lucrative fallibili, atteso che l’attività prosegue ed il soggetto risultante dalla fusione è parimenti soggetto alle regole del concorso“, similmente a quanto accade nell’ipotesi “in cui l’attività di impresa del soggetto imprenditore individuale defunto sia proseguita senza soluzione di continuità dall’erede“.
Tale essendo l’impostazione del ricorrente, risulta interessante soffermarsi – pur brevemente – sulla posizione del Fallimento controricorrente, il quale (i) sottolinea l’inconferenza dei riferimenti all’art. 2495 c.c. e all’art. 2504-bis c.c. e (ii) valorizza quale vero parametro di giudizio l’art. 10 l. fall., al quale ricollega il dettato dell’art. 11 l. fall. Tale norma si riferisce al Fallimento dell’imprenditore defunto e dovrebbe essere applicata in via estensiva/analogica, sul presupposto che la fusione per incorporazione comporta tanto l’estinzione della società incorporata quanto la successione dell’incorporante in universum ius (cfr. Cass. SS.UU. n. 21970/2021).
Anche il PM ha chiesto il rigetto del ricorso, sul presupposto che, dopo la fusione, la possibilità di assoggettare a fallimento la società, ancorché cancellata dal registro delle imprese, “non dipende tanto dalla sua sopravvivenza alla cancellazione, quanto piuttosto dalla presenza nell’ordinamento di una norma speciale come quella dell’art. 10 l.fall.” nonché che, nonostante le oscillazioni giurisprudenziali sulla natura della fusione, “non è mai stata negata la possibilità di assoggettare al fallimento la società incorporata, sia pure entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese“, dal momento che “un fenomeno di riorganizzazione societario (…) come pure, più in generale, di modificazione della struttura conformativa del debitore, non può, come principio, realizzare una causa di sottrazione dell’impresa dalla soggezione alle procedure concorsuali”.
L’art. 10 l. fall., invero, mira a tutelare i creditori da comportamenti potenzialmente in grado di diminuire o affievolire la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2740 c.c. e “la fusione per incorporazione, pur dando continuità ai rapporti giuridici in essere, arreca un potenziale pregiudizio al ceto creditorio della società fusa, che si trova a concorrere sul patrimonio di quest’ultima unitamente ai creditori dell’incorporante“.
Prosegue, pertanto, il PM precisando che “presupposto dell’applicazione dell’art. 10 l. fall. altro non è (…) che la cancellazione dell’imprenditore dal registro dell’impresa (dal momento che) la norma non presuppone necessariamente che anche la corrispondente attività di impresa venga a cessare sul piano oggettivo” (conf. Cass. 23174/2020) e che tale interpretazione “soddisfa pienamente la stessa ratio dell’art. 10 l.fall. che, ammettendo la fallibilità dell’impresa cessata, mira: a) ad evitare che la condotta del debitore possa vanificare le aspettative dei creditori provocando, con la dissoluzione dell’impresa, quella della loro garanzia; b) ad evitare un’indefinita incertezza in ordine alla stabilità dei rapporti giuridici coinvolti (cfr. Cass. 10302/2020)“.
La Suprema Corte, in definitiva, ha ritenuto di condividere la ricostruzione sistematica offerta dal PM e dal controricorrente, in quanto in linea con gli altri interventi nomofilattici precedenti e successivi alla nota pronuncia delle Sezioni Unite del 2021, in cui è stato precisato che “anche nel sistema societario successivo alla riforma del 2003, così come in quello antecedente (cfr. Cass. Sez. U., 19698/2010), la fusione per incorporazione estingue la società incorporata – i quali valorizzano l’art. 10 l. fall. come norma affatto speciale che, attraverso una fictio iuris (e in perfetta equiparazione al debitore persona fisica), sancisce la fallibilità anche degli imprenditori collettivi, e segnatamente delle società – quand’anche “estinte” a seguito di incorporazione, fusione o scissione totalitaria (Cass. 11984/2020) – entro il termine di un anno dalla loro cancellazione dal registro delle imprese, purché l’insolvenza si sia manifestata anteriormente alla medesima o nel termine detto”.