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Enel, una newco per vendere contatori e tecnologie sulle reti

Enel crea una nuova società per crescere nella consulenza e vendita di servizi per la digitalizzazione delle reti ad altri distributori in Italia e a livello globale, anche nei paesi nei quali non è presente. L’iniziativa, che verrà presentata oggi in un evento digitale, passa attraverso lo spin off delle attività che vanno dalla vendita dei nuovi contatori digitali, ai servizi per la gestione intelligente delle reti anche a livello decentralizzato per consentire un’ottimizzazione dei flussi di energia sino alla digitalizzazione delle operazioni in campo. La nuova società, che si chiama Gridspertise, è già stata costituita e punta a raggiungere ricavi per più di 1,5 miliardi annui al 2030 e una quota di mercato di almeno il 10% a livello mondiale in un settore che oggi vale 13 miliardi (un altro importante operatore oltre Enel oggi è la Svizzera Landis and Gyr), ma è in forte crescita ed è destinato a raggiungere i 20 miliardi entro il 2030. Al momento Gridspertise conta un centinaio di dipendenti, ma è previsto un piano di assunzioni a livello globale visto che la nuova realtà sarà disposta su quattro poli di sviluppo in Italia, Spagna, Stati Uniti e India.

L’amministratore delegato è Robert Ronald Denda, responsabile innovazione e industrializzazione delle reti del gruppo Enel. Il prossimo step, forse già a partire dal prossimo anno, potrebbe essere l’apertura del capitale, per una quota di minoranza, a un fondo di investimento o infrastrutturale in linea con il modello di stewardship annunciato nel piano industriale del novembre scorso. «Questa società è destinata a fare centinaia di milioni di investimenti nei prossimi anni in tecnologia – spiega Antonio Cammisecra, responsabile globale infrastrutture e reti del gruppo Enel -. Vogliamo arrivare al contatore digitale di quarta generazione che sarà globale, un unico contatore che si potrà adattare in funzione degli schemi regolatori o delle esigenze della evoluzione del mercato dei singoli paesi».

Il contatore rappresenta la tecnologia più iconica quando si parla di reti di energia elettrica; in realtà costituisce solo una parte del processo di digitalizzazione. Enel è un operatore leader nella digitalizzazione delle reti e nell’istallazione di contatori intelligenti, complice il fatto che il modello adottato dal gruppo guidato da Francesco Starace è stato progettato e realizzato con tecnologia propria (una delle pochissime eccezioni in termini di realizzazione di prodotti, assieme alla fabbrica di pannelli fotovoltaici di Catania) perché non esistevano sul mercato dispositivi digitali.

Il gruppo sta implementando l’installazione di contatori di nuova generazione in Italia, in Spagna ha completato con quelli di seconda generazione e sta avviando l’installazione di 8 milioni di pezzi in una sola città, a San Paolo del Brasile. «Le reti non potranno supportare la transizione energetica se non saranno altamente digitalizzate – continua Cammisecra -. Da una parte la complessità di quello che avviene su queste infrastrutture richiederà una diversa capacità di gestione. Dall’altra, la digitalizzazione consente di allungare la vita di reti che altrimenti dovrebbero essere sostituite. È anche un modo per ridurre il carico sulle bollette elettriche e per contribuire agli investimenti che dovranno essere fatti per l’elettrificazione dei consumi. Con la digitalizzazione riusciamo a utilizzare meglio, e per più tempo, reti che altrimenti dovremmo rinnovare e questo accelererebbe necessità di investimenti che sono già previsti per l’espansione dei consumi che vedremo nei prossimi anni». Enel fa già da consulente per le reti di distribuzione di altri paesi europei nei quali non è presente, come Germania e Francia. Vende già prodotti e servizi a molti distributori italiani, che installano contatori Enel. Con Acea ha un contratto quinquennale del valore di alcune decine di milioni di euro. «Stiamo sviluppando un dispositivo che sarà montato in tutte le cabine secondarie che fornisce l’edge computing, cioè la possibilità della rete di avere capacità di calcolo non centralizzata ma distribuita – aggiunge il manager – Questo permette di avere un’intelligenza computazionale in grado di svolgere a livello locale il calcolo e il bilanciamento dei flussi elettrici o il governo dei flussi tra partecipanti sulla rete stessa. Non esisteva un dispositivo del genere, lo abbiamo sviluppato noi, lo stiamo brevettando. Partiremo dalle nostre reti e poi lo offriremo alle reti più evolute nei prossimi due anni».

Riforma penale, sì alla doppia fiducia

Quella della giustizia penale è stata la più tormentata delle riforme, almeno sinora, per il Governo Draghi. E ieri pomeriggio il testo della legge delega ha ricevuto la fiducia del Senato sui due articoli che lo scandiscono, mentre questa mattina è atteso il voto finale sul complesso del provvedimento già approvato poche settimane fa dalla Camera. In poche ore la ministra della Giustizia Marta Cartabia incassa l’approvazione di due interventi chiave anche in prospettiva Pnrr. Martedì sera, in prima lettura, infatti, sempre il Senato aveva dato il via libera alla riscrittura del Codice di procedura civile.

È stata tuttavia la riforma della procedura penale e, più nel dettaglio, l’individuazione di un meccanismo che consentisse di superare la nuova prescrizione, in vigore dal 2020 e fortemente voluta dal primo Governo Conte e dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, a tenere lungamente impegnata la maggioranza. Forte infatti è stata la connotazione identitaria assunta soprattutto per i 5 Stelle dal tema della durata dei processi, in chiave di giustizia negata per effetto dell’estinzione provocata dalla prescrizione.

Molto si è allora dovuto spendere, intervenendo anche in prima persona, il premier Mario Draghi, in un luglio rovente. Ma la stessa ministra, che pure inizialmente aveva presentato una proposta assai meno complessa di quella poi concordata, ha dimostrato alla prima vera prova dei fatti, un buon grado di flessibilità sui contenuti e di capacità nello spendere la propria credibilità di giurista al di sopra delle parti nella gestione delle tensioni tra forze politiche.

Ancora ieri pomeriggio, il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, nel suo intervento in Aula ha dichiarato di votare con convinzione una riforma che «ci porta fuori dalla riforma Bonafede, verso una dimensione nuova». Ma nello stesso tempo Renzi ha attaccato l’uso politico delle inchieste giudiziarie fatto «a destra come a sinistra» e sottolineato la subalternità della politica alla magistratura e ai singoli pubblici ministeri.

Certo, al di là dell’assai articolato sistema di improcedibilità che dovrà colpire i procedimenti penali incapaci di rispettare i tempi di durata in appello e Cassazione (confermando il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado), la riforma si pone obiettivi ambiziosi, il taglio del 25% della durata dei giudizi, intervenendo su una serie di storture che non da oggi affligge il nostro sistema penale.

Cartabia stessa, ancora di recente, ne ha ricordata qualcuna. Il numero assai significativo di assoluzioni, per esempio: negli ultimi 3 anni, ci sono state ogni anno 125mila assoluzioni in primo grado e circa 14.000 in secondo grado all’anno, su una media di 440.000 processi, circa il 35% quindi. E, se è vero che un’assoluzione non testimonia il fallimento del processo, dimostrando piuttosto anche l’esistenza di un sistema in grado di tutelare gli innocenti, nello stesso tempo «troppe volte, in alcuni distretti più di altri – ha sottolineato la ministra -, si esercita l’azione penale senza un vaglio critico dell’effettiva possibilità di trovare riscontri nel dibattimento».

In questo senso, a essere resa più severa è la regola per il rinvio a giudizio: per celebrare un processo non è sufficiente avere elementi per sostenere l’accusa, ma il pm deve chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna. Ma sull’esercizio dell’azione penale, altro punto assai controverso, saranno le singole Procure a dovere definire le priorità tenendo conto delle specificità del territorio e delle risorse disponibili, ma dovranno farlo nel contesto di criteri generali che sarà il Parlamento a dovere identificare.

E sempre alla massima cautela nell’aprire un procedimento penale invitano le norme che vietano di fare seguire all’iscrizione nel registro degli indagati qualsiasi conseguenza sul piano civile o amministrativo, corroborando la presunzione d’innocenza . Ma da segnalare c’è anche la possibilità per il gip di retrodatare l’iscrizione stessa, verificandone la tempestività, e la discovery degli atti come effetto dell’inerzia del pm nell’esercizio dell’azione penale al termine delle indagini.

La riforma, preparata da un denso lavoro svolto da una commissione tecnica guidata dal presidente emerito della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, interviene poi su numerosi punti del processo penale, cercando di evitare che un buon numero di procedimenti approdi al dibattimento. In questa prospettiva deve essere interpretata un lungo elenco di misure, che vanno dal potenziamento dei riti alternativi, con l’impulso dato al patteggiamento o al giudizio abbreviato. Ma in questa direzione va anche la modifica delle condizioni di procedibilità, con l’estensione delle querela, l’allargamento dei casi in cui può scattare la causa di non punibilità per tenuità del fatto.

Tra i punti sistematici più innovativi, l’affidamento al Governo di una disciplina organica della giustizia riparativa, con la definizione di programmi condivisi tra vittima e condannato che potranno essere favorevolmente considerati sia nel corso del procedimento penale sia nella fase esecutiva.

Bollette, il governo valuta il taglio dell’Iva solo per il gas

Governo al lavoro fino alla tarda serata di ieri sulle misure per contenere i rincari delle bollette dell’energia. Misure attese al consiglio dei ministri di oggi salvo cambiamenti dell’ultima ora, perché il provvedimento potrebbe fino alla fine slittare a martedì prossimo. Se non ci saranno correzioni in corsa, l’esecutivo darebbe il via libera già oggi a un pacchetto da 3-3,5 miliardi, in cui la fetta principale sarà rappresentata dal taglio una tantum degli oneri di sistema per famiglie e microimprese che rientrano nel mercato tutelato da circa 2,5 miliardi concentrati, in particolare, sulla riduzione della componente Asos che sostiene lo sviluppo delle rinnovabili.

Accanto a questa voce, si lavora anche ad altri due interventi: il taglio dell’Iva temporaneo per le tariffe del gas per circa 500 milioni e l’estensione, anche questa a tempo, per il bonus sociale (lo sconto in bolletta per le famiglie in difficoltà) per un taglio complessivo di circa 400 milioni, equamente divisi tra luce e gas.

L’entità del taglio dell’Iva per il gas al 5-10% in relazione alle fasce (attualmente si paga un’aliquota del 10% o del 22% a seconda del consumo annuale di gas), è stato oggetto di un confronto tra i tecnici del Mef e del Mite fino a tardi e la decisione se inserirlo in questo pacchetto di misure o posticiparlo sarà presa solo oggi. Ad ogni modo, la scelta di applicare la riduzione solo al gas è legata alla maggiore incidenza delle imposte su questo versante rispetto all’elettricità: il 35,6% di tutta la bolletta considerando anche accise e addizionali regionali.

Quanto all’intervento sul bonus, ci si starebbe concentrando sull’ampliamento dell’assegno più che su un’estensione della platea dall’attuazione molto più farraginosa. In sostanza, si punterebbe a dare uno sconto più consistente nella bolletta a chi già percepisce il bonus per il disagio fisico (al momento 41mila famiglie) e ai titolari di reddito di cittadinanza. Anche in questo caso, la misura sarebbe temporanea, ma le discussioni sul possibile perimetro di questo allargamento ieri erano ancora aperte senza contare che il bonus sociale è finanziato proprio con gli oneri di sistema.

Fin qui i contorni del decreto predisposto dall’esecutivo, ma anche Bruxelles si prepara a intervenire come ha spiegato ieri la commissaria Ue per l’energia, Kadri Simson : le misure contro l’aumento dei prezzi dell’energia «saranno in conformità con le attuali normative». L’Europa, insomma, darà indicazioni in «una scatola degli attrezzi» che «sarà pubblicata nelle prossime settimane».

I tempi della Fed: primo rialzo dei tassi d’interesse nel 2022

La Federal Reserve orchestra il ritiro degli stimoli di politica monetaria, indicando che una riduzione nei suoi acquisti di titoli del Tesoro e garantiti da mutui potrebbe scattare dal prossimo vertice del 2 e 3 novembre e essere completata in giugno. Non solo: un primo rialzo nei tassi di interesse, oggi rimasti vicini allo zero, è possibile nel 2022 anzichè nel 2023 come finora ipotizzato.

«Se ampi progressi nell’economia continuano come previsto, una moderazione nel passo degli acquisti di asset può essere presto richiesto», ha indicato la Fed. Il ricorso al termine “presto” invece di un più generale riferimento a mosse entro fine anno, ha spinto gli analisti ad alzare le scommesse su un appuntamento a novembre piuttosto che a dicembre con il cosiddetto “tapering”. Il chairman Jerome Powell, nella conferenza stampa successiva, ha rivelato che all’interno della Fed è emerso un consenso per una manovra di «graduale tapering che si concluda entro metà dell’anno prossimo», vale a dire un “taglio” al passo di 15 miliardi al mese.

La Fed oggi compra mensilmente asset per 120 miliardi di dollari, 80 miliardi in titoli del Tesoro e 40 in bond garantiti da mutui. Un programma che aveva lanciato in risposta alla crisi da pandemia, assieme all’azzeramento dei tassi d’interesse. E anche sul costo del denaro la Fed prepara adesso potenziali accelerazioni dei tempi della svolta: metà dei 18 esponenti del comitato direttivo scommette su una stretta sui tassi entro fine 2022, due più che in passato. In precedenza una maggioranza propendeva per interventi restrittivi solo a partire dall’anno successivo. Powell ha tuttavia precisato che il tapering non deve essere visto come una sicura anticipazione di rialzi dei tassi, che richiedono il consolidamento di maggiori progressi della ripresa.

La Banca centrale, in una presa di posizione unanime, ha ammesso che la recrudescenza della pandemia con la variante Delta ha frenato il rilancio economico. Ma ha aggiunto che nell’insieme gli indicatori «hanno continuato a rafforzarsi». Aggiornando l’outlook sull’espansione in linea con le sue scelte di politica monetaria, ha alzato le stime sull’inflazione di 0,8 punti al 4,2% a fine 2021 e limato quelle sulla crescita al 5,9% dal 7 per cento. Nel 2022 l’inflazione dovrebbe rientrare al 2,2 per cento.

La Fed ha così almeno parzialmente rotto gli indugi sulla strategia di ritiro degli aiuti all’economia. Finora la cautela nell’avviare qualunque rientro da politiche ultra-espansive aveva avuto radici anzitutto nella volontà di evitare sorprese per i mercati. Memore del “taper tantrum”, la pericolosa scossa sofferta nel 2013 da decisioni considerate troppo aggressive e impreviste nell’uscita da un periodo di stimoli anti-crisi. Il rialzo delle borse dopo gli annunci di ieri suggerisce che al momento sembra esser riuscita nei suoi preparativi senza traumi.

L’altra ragione di prudenza era tuttavia più profonda, da cercare in dati contrastanti sulle condizioni della ripresa odierna. L’inflazione, ai massimi da trent’anni, è diventata una crescente preoccupazione, anche se Powell ha ripetutamente citato l’effetto di pressioni transitorie, legate a strozzature da pandemia nella produzione e a bruschi riscatti nei consumi. Timori di durature pressioni sui prezzi favoriscono azioni più determinate nel rientro dagli stimoli.

Allo stesso tempo, però, la crescita americana ha fatto i conti con il riaggravarsi della pandemia e rimarrà orfana di soccorsi fiscali straordinari, che ormai hanno fatto il loro corso. Una combinazione che ha evidenziato persistenti vulnerabilità, riflesse in attese di crescita ridimensionate. Le previsioni mediane degli analisti, raccolte da Bloomberg, hanno mostrato una crescita del Pil al 5% nel terzo trimestre, dal 6,8% precedente, e al 5,3% dal 5,6% nel quarto.

Evergrande tenta il rimborso anti crack Pechino, via a maxi iniezione di liquidità

China Evergrande Group è riuscita a tenere sotto controllo le ansie dei creditori sul fronte interno: pagherà – ha promesso – 35,88 milioni di dollari di interessi sul debito onshore.

Ma il secondo gruppo immobiliare cinese, schiacciato da 300 miliardi di dollari di debito, non ha menzionato affatto come pensa di farvi fronte, né come farà ad onorare gli altri 84 milioni di cedole in scadenza sempre oggi sul debito offshore, bond emessi in dollari che si teme mettano a rischio le piazze finanziarie globali.

C’è da sottolineare che Evergrande avrà 30 giorni a partire da oggi per onorare la scadenza, ma è innegabile che la mossa di ieri possa essere interpretata come un segnale ambiguo.

Nel documento congiunto con la Borsa di Shenzhen, la capogruppo ha anticipato infatti che la società salderà oggi una cedola sul prestito obbligazionario del 5,8% in scadenza a settembre 2025. Non è stato specificato come, ma l’avviso ha placato per il momento gli animi degli operatori finanziari. Le Borse di Shanghai e Shenzhen, dopo la pausa per la Festa di metà autunno, hanno accusato un ribasso dell’1,4% – meno del temuto – riguadagnando terreno in giornata, mentre quella di Hong Kong, dove Evergrande ha perso l’84% del valore borsistico da inizio anno, è rimasta chiusa anche ieri per festività. Il calendario non gioca a favore. La piazza più importante per Evergrande, società fortemente connessa con le grandi famiglie dell’ex colonia britannica, riaprirà oggi i battenti e si vedrà con quali effetti.

La mossa di ieri è stata comunque una boccata di ossigeno, giusto per poter prendere tempo e anche per dare alla Banca centrale cinese la possibilità di intervenire per immettere liquidità nel sistema: circa 18,6 miliardi a vantaggio delle banche commerciali, che poi prestano all’intero network e che ora possono riaprire i cordoni della borsa. I tassi prime rate attesi ieri sono rimasti invariati anche a settembre (3.85% quello a un anno e 4,65% quello a cinque anni). Segnali inviati per rassicurare i mercati sul fatto che la situazione è tutto sommato sotto controllo, anche se le autorità centrali hanno ripetutamente ricordato che non lanceranno nessuna ciambella di salvataggio.

La situazione resta fluida e le voci su ciò che accadrà nelle prossime ore si rincorrono. Si rincorrono anche le valutazioni sugli effetti del caso Evergrande per l’economia cinese. L’Ocse, attraverso Laurence Boone, capo economista, fa sapere che «le autorità cinesi hanno la capacità di tenere sotto controllo la crisi del debito Evergrande e le ricadute dovrebbero essere limitate dato che hanno la capacità fiscale e monetaria per attutire lo shock. L’impatto sarebbe abbastanza limitato, tranne ovviamente che per alcune società particolari».

L’impatto più violento sarebbe sull’economia reale, perché con il default di Evergrande rallenterebbe lo sviluppo di molti progetti immobiliari in tutta la Cina: non c’è forse provincia in cui il gruppo non sia coinvolto e ci sarebbero tra l’altro serie ricadute su tutta la catena delle subforniture.

Secondo Li Daokui, ex consulente della Banca centrale, oggi docente alla School of Economics and Management della Tsinghua University, «la crisi del debito di Evergrande rallenterà la crescita economica della Cina, anche se avrà una ricaduta minima sul sistema finanziario, perché non ci sono strumenti derivati ??costruiti sul debito di Evergrande». Si profila invece l’eventualità di un altro intervento straordinario, ossia la possibilità che la ristrutturazione del debito si raccordi con lo spacchettamento nel medio-lungo periodo della società, che verrebbe “sciolta” in quattro gruppi principali. Considerata l’autorevolezza di Li Daokui nella cerchia del potere di Pechino si tratta di un’ipotesi verosimile.

Evergrande è peraltro cresciuta a dismisura negli anni, spingendosi ben oltre l’iniziale “mission” immobiliare: ha progettato auto elettriche (pur senza venderne finora nemmeno una), ha acquistato società di calcio di successo che perdono miliardi e la lista degli investimenti in perdita potrebbe continuare all’infinito. È arrivata l’ora di iniziare una drastica cura dimagrante.

Professionisti, aiuti in scadenza

Periodo di scadenze per le richieste di sostegno da parte dei professionisti. Tra il 30 settembre e il 31 ottobre si chiuderanno infatti i termini per presentare le domande relative a quattro misure a favore dei lavoratori autonomi: l’esonero contributivo (per iscritti all’Inps e per iscritti alle casse private), l’indennità Covid prevista dal dl Sostegni bis e l’Iscro, una nuova forma di ammortizzatore sociale per le partite iva.

Le scadenze del 30 settembre. Entro la fine del mese si dovrà procedere con l’invio delle domande per ottenere le indennità Covid del Sostegni bis e per l’esonero contributivo a favore degli autonomi iscritti all’Inps. Per quanto riguarda le prime, si tratta del rinnovo dei bonus già previsti dal Sostegni 1 a favore di lavoratori stagionali, intermittenti, autonomi occasionali, incaricati delle vendite a domicilio, lavoratori a tempo determinato del turismo e degli stabilimenti termali e lavoratori dello spettacolo. Chi ha ricevuto gli aiuti del primo decreto non ha dovuto inviare una successiva domanda visto che l’accredito era automatico. Ma per i lavoratori che invece non avessero ancora beneficiato del contributo, ci sarà tempo appunto fino al 30 settembre per richiederlo. La domanda potrà essere presentata esclusivamente tramite il sito dell’Inps.

L’anno bianco, invece, è stato introdotto con la legge di bilancio 2021 (legge 178/2020). Si tratta di un esonero dei contributi previdenziali a favore dei lavoratori autonomi, nella somma massima di 3.000 euro. Le indicazioni per richiedere il sostegno sono arrivate molto più tardi rispetto all’approvazione della manovra, visto che il decreto è stato pubblicato il 27 luglio. Il testo fissava la scadenza per l’invio delle domande al 31 luglio, quindi a solo quattro giorni dalla diffusione ufficiale del provvedimento. Con il messaggio n. 2761 del 29 luglio, l’Inps ha poi comunicato la proroga dei termini al 30 settembre. Dal 25 agosto le diverse gestioni dell’Istituto hanno messo a disposizione i modelli per chiedere l’esonero (la richiesta dovrà essere effettuata sempre sul sito dell’Inps).

Le scadenze del 31 ottobre. Gli iscritti alle casse private avranno più giorni per richiedere l’esenzione dei contributi. Questo perché il procedimento previsto dal decreto richiede tempi tecnici più lunghi rispetto a quello stabilito per l’Inps; le casse, infatti, in questi mesi hanno dovuto effettuare delle operazioni di monitoraggio per capire quanti fossero gli iscritti rientranti nella platea dei beneficiari. A pochi giorni dalla pubblicazione del decreto, le varie casse avevano pubblicato i moduli per accedere alla misura sui propri siti internet. L’ultima scadenza fissata per la fine del mese di ottobre è quella relativa all’Iscro, la nuova indennità per gli autonomi. Si tratta di una misura sperimentale, in vigore per i prossimi tre anni, che si pone l’obiettivo di essere una sorta di ammortizzatore sociale per gli autonomi. Fino al 2023, rimarrà la scadenza del 31 ottobre per inviare le domande.

Senza il green pass si è assenti

Il dipendente senza green pass sarà «assente ingiustificato» e non «sospeso» dal lavoro. Sia nel settore pubblico e sia privato, fatta eccezione nelle aziende con meno di 15 dipendenti dove il datore di lavoro potrà sospendere preventivamente il lavoratore che si è assentato da cinque giorni se fa un’assunzione sostitutiva. A stabilirlo è il decreto legge n. 127/2021 apparso in GU n. 226/2021, in vigore da ieri. Il nuovo obbligo, operativo dal 15 ottobre al 31 dicembre, costerà caro ai lavoratori: retribuzione, contributi e ogni altro emolumento collegato al rapporto di lavoro (tredicesima, Tfr, ferie, e anche le detrazioni fiscali per i giorni di non lavoro).

Ok al nuovo obbligo. La versione ufficiale del decreto conferma molte anticipazioni, a cominciare dall’ampio campo di applicazione. Infatti, l’estensione dell’obbligo del green pass al settore privato e a quello pubblico (dove ancora non è vigente) ha la particolarità di riguardare chiunque svolga attività di lavoro, di formazione o volontariato, anche in base a contratti esterni. Quindi un ambito che non si ferma ai dipendenti, ma comprende tutti i lavoratori: autonomi, professionisti, artigiani, commercianti, occasionali, etc. In particolare è “chi” lavora o svolge attività di formazione o volontariato che ha l’obbligo di possedere ed esibire il green pass per accedere ai luoghi in cui svolge l’attività.

Assenti e non sospesi. Una novità del testo finale del decreto riguarda le conseguenze per i lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, che non hanno il green pass: non potranno accedere nei luoghi di lavoro e saranno considerati «assenti ingiustificati» fin quando non esibiranno la certificazione verde. Il decreto precisa che: non si sono conseguenze disciplinari; si ha diritto alla conservazione del rapporto di lavoro; per i giorni di assenza non spettano retribuzione e altri compensi o emolumenti, comunque chiamati. Il cambio di «specie» della non presenza a lavoro («assenza ingiustificata», anziché «sospensione») appare più pertinente al caso (è il lavoratore che non ha il requisito) e garantisce maggiormente i datori di lavoro sulle conseguenze sanzionatorie: se ingiustificata, infatti, è già pacifico che l’assenza non determini alcun diritto al lavoratore (retribuzione, Tfr, ferie, ecc.), diversamente dai casi di «sospensione» dal lavoro (ne andrebbe appurata la responsabilità, con sicuro contenzioso).

Solo in Italia (lavoro pubblico). Altra novità del testo finale riguarda la precisazione, solo per il settore pubblico, che l’obbligo del green pass si applica esclusivamente «nell’ambito del territorio nazionale». Analoga norma non è prevista per il settore privato, suscitando riflessioni sui lavoratori distaccati all’estero.

Le piccole aziende (settore privato). Il testo ufficiale del decreto, infine, lascia la possibilità alle imprese con meno di 15 dipendenti di sospendere i dipendenti che non presentano green pass per cinque giorni di fila. La durata della sospensione deve corrispondere a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione del lavoratore senza green pass, al massimo 10 giorni, rinnovabili per una volta. Il decreto, però, non precisa le conseguenze: spetterà o no la retribuzione, ecc., al lavoratore «sospeso» (e non «assente ingiustificato»)? La risposta non è certa e, in casi come questi casi, solo un accordo tra impresa e lavoratore preserva da un sicuro contenzioso.

Solare, ma senza espropri

«Stiamo lavorando per inserire in legge di bilancio la cedibilità (a terzi) del credito d’imposta Agricoltura 4.0 (come fatto con il bonus 110%) e per incrementare gli indennizzi per chi ha subito danni da fauna selvatica». Sul versante energie rinnovabili, invece, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – attraverso l’articolo 18 del decreto legge governance (n. 77/2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 108/2021) – consente la possibilità di procedere a espropri di terreni e fabbricati per realizzare opere di pubblica utilità finanziate dal Recovery plan. Tra queste ci sono gli investimenti in fotovoltaico e agrivoltaico (gli impianti realizzati su terreni agricoli, sollevati da terra, che consentono produzione agricola ed energetica). A riguardo: «L’idea è di avere un processo rapido di autorizzazione degli impianti, non di espropriare gli agricoltori dei loro terreni»: a chiarire il quadro, anche rispetto all’impatto della misura svelata da ItaliaOggi il 23 luglio scorso – è stato il ministro delle politiche agricole, Stefano Patuanelli. Il capo del dicastero di via XX settembre ha risposto ieri ad una serie di quesiti a risposta immediata alla camera dei deputati, precisando le intenzioni dell’esecutivo in merito all’attuazione del Pnrr in fatto di energie rinnovabili.

In particolare, per scoraggiare la possibile sottrazione di terreni usati per la produzione alimentare in favore delle energie rinnovabili, il ministro ha detto: «Non dobbiamo incentivare la produzione e vendita di energia rinnovabile attraverso un prezzo incentivato, ma attraverso il sostegno al capitale che l’agricoltore può destinare alla realizzazione dell’investimento». Di più: «I meccanismi incentivanti non dovranno trasformare le aziende agricole in aziende energetiche; dovranno incentivare l’investimento dell’agricoltore, non la produzione del kilowattora. E dovranno scongiurare che le aziende agricole diano i propri terreni in affitto alle imprese energetiche». Quindi, ha rincarato la dose: «Dobbiamo incentivare gli agricoltori a investire in rinnovabili. Terreni inutilizzati ce ne sono. Possiamo, ad esempio, pensare di accompagnare l’Autostrada del sole con le rinnovabili. E poi ci sono le aree industriali dismesse, non utilizzate; il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030 (Pniec), peraltro, prevede che il fotovoltaico venga installato su copertura di edifici e non a terra».

Il nodo, come detto, è evitare che produzione alimentare ed energetica entrino in conflitto. Lavorare perché siano complementari. Per Patuanelli se ne esce in un solo modo: «Quando parliamo di agro-energie il suffisso importante è agro. Ciò significa che le aziende agricole devono avere possibilità di generare più reddito attraverso le rinnovabili, ma la loro missione principale dev’essere produrre cibo di qualità. Quindi», promette Patuanelli: «Nessuna azienda agricola potrà dismettere la propria produzione e affittare i propri terreni per avere l’incentivo. Al contempo, le aziende energetiche non dovranno spingere gli agricoltori ad abbandonare la produzione agricola».

Già, ma come farà il governo a disinnescare materialmente il rischio che il fotovoltaico sottragga terreno alla produzione di cibo? Il ministro ha risposto anche su questo: «Lo faremo attraverso la chiarezza dei bandi su agrivoltaico e fotovoltaico redatti dal Mipaaf e dal Ministero della transizione ecologica. E mediante un’elaborazione chiara delle linee guida, definite in attuazione dell’articolo 31 del dl governance, che stiamo costruendo col Crea». E ancora: «L’installazione dei pannelli non potrà avvenire su terreni destinati a produzione agricola».

Ai deputati riuniti in aula a Montecitorio, però, Patuanelli non ha celato la sfida a cui è chiamato il paese: «Oggi produciamo 0,8-0,9 gigawatt l’anno tramite agrivoltaico», ha detto; «la cifra va moltiplicata almeno per dieci per soddisfare il fabbisogno necessario, previsto dai target sulle fonti rinnovabili».

Infine, sul tema ungulati (e cinghiali che infestano campi e città), il ministro ha annunciato il prossimo varo di uno schema di decreto contenente indennizzi in regime de minimis: «Il testo è stato inviato al MiTe per la consultazione», ha detto. «Gli aiuti sono in arrivo, ma non bastano. Faremo di più».

Un processo civile semplificato

Processo civile semplificato. In ventiquattro mosse, quanti sono gli emendamenti formulati dalla guardasigilli Marta Cartabia al testo del precedessore Alfonso Bonafede e confluiti nel testo approvato con fiducia al Senato: 201 i voti favorevoli e 30 i contrari. Ora il ddl delega passa all’esame della Camera. Quali sono gli «snodi cruciali»? In primo grado la causa deve arrivare alla prima udienza già definita nelle domande, nelle eccezioni e nelle richieste di prove. E ancora: procedimenti in camera di consiglio, più tutela al credito nell’esecuzione forzata, addio al doppio binario del rito Fornero nelle cause di lavoro, un solo rito e un solo tribunale per le controversie in tema di famiglia, persona e minori. Poi la possibilità per i coniugi di pattuire nella negoziazione assistita l’assegno divorzile in unica soluzione. E le funzioni trasferite ai professionisti nei procedimenti di volontaria giurisdizione. Incentivi anche fiscali alle forme di giustizia alternativa. Senza dimenticare il potenziamento dell’ufficio del processo, che sbarca anche in Cassazione: «avrà una proiezione lunga nel tempo», assicura la ministra Cartabia, presente martedì pomeriggio a Palazzo Madama alla discussione in aula: «Oltre a cambiare il modo di lavorare e di organizzarsi del singolo giudice crea un ponte tra le generazioni».

Con filtro e senza

Sono introdotti in primo grado termini intermedi dopo gli atti introduttivi per definire le domande, le eccezioni e le richieste di prova: così il giudice può imprimere un corso alla causa, ammettendo le prove, rimettendola subito in decisione o inviando le parti in mediazione. Addio udienza di precisazione delle conclusioni e per il giuramento del consulente tecnico d’ufficio. Stabilizzate le modalità online introdotte per l’emergenza Covid: trattazione scritta e udienze da remoto. Snellita la fase decisoria. Ordinanza immediata di accoglimento o rigetto, reclamabile e non idonea al giudicato. E in appello? Si riducono le possibilità di sospendere l’efficacia della decisione di primo grado. Razionalizzato il filtro d’inammissibilità del gravame. Torna il consigliere istruttore. In Cassazione si riducono ancora le udienze in forma pubblica; addio alla sesta sezione, con la funzione di filtro sui ricorsi che è attribuita alle altre cinque. Solo atti chiari e sintetici. Arriva il rinvio pregiudiziale: il giudice del merito può investire la Suprema corte su questioni nuove di puro diritto che presentano difficoltà d’interpretazione.

Vente et astreinte

Addio formula esecutiva all’inizio dell’espropriazione. Termini ridotti, snellito il pignoramento presso terzi. Ampie deleghe ai professionisti per aiutare i giudici nelle esecuzioni immobiliari. E con la vente privée sarà lo stesso debitore esecutato a vedere il cespite. Largo alle astreinte, le sanzioni pecuniarie per costringere la parte ad adempiere in caso d’inosservanza di termini o inattività. Nel lavoro un unico procedimento per i licenziamenti con corsia preferenziale alla trattazione della reintegra nel posto rispetto ai temi connessi. Nasce il tribunale della famiglia, delle persone e dei minori.

Contratti conciliati

Valorizzate le Adr, alternative dispute resolution. Credito d’imposta sulle spese legali per la mediazione. E anche nella negoziazione assistita patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti. Obbligatorio il tentativo di conciliazione nei contratti di durata: franchising, consorzio, contratti d’opera, rete, società di persone e subfornitura. Monitoraggio di cinque anni sull’obbligatorietà. Aumentano il peso della mediazione demandata dal giudice la formazione per mediatori e organismi di conciliazione. Negoziazione assistita dagli avvocati nelle controversie di lavoro. E in quelle sull’affidamento e il mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio. Crescono le garanzie di imparzialità nell’arbitrato: obbligatorie rilevazione e disclosure di eventuali cause di ricusazione. Se le parti sono d’accordo, gli arbitri possono emanare misure cautelari.

Impresa in crisi, banche responsabili

Le banche devono valutare con grande prudenza la concessione del credito ai soggetti in condizioni di difficoltà economica. Nel caso tale concessione avvenga, l’istituto di credito deve ristorare il danno qualora dal finanziamento derivi una continuazione dell’impresa con conseguente aggravamento del dissesto. Lo ha precisato la Corte di cassazione con ordinanza n. 24725 del 14 settembre 2021. I giudici hanno superato dubbi interpretativi, fissando alcuni capisaldi che vanno tenuti in considerazione qualora ricorra la fattispecie di c.d. abusiva concessione del credito, contemplata tanto dalla legge fallimentare (art. 218), quanto dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (art. 325) che, proroghe da pandemia permettendo (da ultimo, dl 118/2021), rappresenterà il futuro corpus normativo di riferimento. Si è ritenuto, nella sentenza in commento, che l’erogazione del credito che sia qualificabile come «abusiva» (ossia effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di non accidentale difficoltà economico-finanziaria e in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi) integra una condotta illecita del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di prudente gestione precipuamente imposti dal Testo unico bancario (dlgs 385/1993). A ciò consegue l’obbligo, per l’istituto di credito, di ristorare il danno, a condizione però che si dimostri che dal finanziamento sia discesa una continuazione dell’impresa con conseguente aggravamento del dissesto. E la responsabilità in capo alla banca, qualora abusiva finanziatrice, può anche sussistere in concorso con quella degli organi sociali dell’impresa in crisi (es. amministratori), e ciò senza che, peraltro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso tali organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di mero c.d. litisconsorzio facoltativo. In altre parole, si tratta di due azioni distinte e separate, che possono, ma non necessariamente devono, conoscere il proprio destino nell’ambito del medesimo processo. Si è precisato, però, che non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca la quale, pur al di fuori di una formale procedura di composizione della crisi dell’impresa (che potrebbe escludere alla radice l’integrazione della fattispecie), abbia assunto un rischio non irragionevole, operando cioè nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa in grado, secondo una valutazione a priori, di superare la crisi o almeno di rimanere sul mercato. Ciò purché la valutazione dell’istituto di credito si sia basata su documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi. Ove tanto non capiti, e quindi si rintracci l’abusività della concessione, a promuovere l’azione risarcitoria deve essere il curatore fallimentare: è questo l’unico soggetto che può, o, meglio, deve, agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, sia in caso di illecita nuova finanza, sia di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ai sensi dell’art. 2740 cc..

Conto cointestato, l’Irpef non perdona

Il denaro versato sul conto cointestato non appartiene anche all’altro coniuge e, pertanto, è soggetto a Irpef quando viene indebitamente prelevato dal partner.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 25684 del 22 settembre 2021, ha respinto il ricorso di un uomo che aveva ricevuto un accertamento sui soldi presi dal conto cointestato con la moglie ma da lei sola versati.

In altre parole, hanno spiegato gli Ermellini con questa interessante motivazione, il denaro è di entrambi solo se viene provato quello i latini definivano «l’animus donandi». E cioè la volontà di chi versa di fare un regalo al partner.

Infatti, si legge in uno dei passaggi chiave dell’ordinanza, anche sul piano strettamente civilistico, il versamento di una somma di danaro da parte di un coniuge su conto corrente cointestato all’altro coniuge non costituisce di per sé atto di liberalità. Difatti, l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito che risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari, può essere qualificato come clonazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della detta cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.

Per cui, in assenza di circostanze univocamente suffraganti l’immanenza di uno spirito liberale, il mero versamento da parte del coniuge di danaro personale sul conto corrente cointestato al contribuente non era idoneo a fondare una presunzione di appartenenza pro quota a quest’ultimo.

Sul piano più strettamente fiscale, la Cassazione ha ricordato che in tema di imposte sui redditi, i proventi derivanti da fatti illeciti, rientranti nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, comma 1, del dpr 22 dicembre 1986 n. 917, devono essere assoggettati a tassazione anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati o se in capo all’autore del reato sussisteva l’intenzione di non trattenere le ricchezze percepite nel proprio patrimonio, ma di riversarle a terzi.

Nel caso sottoposto all’esame della Corte, il contribuente era stato condannato dal giudice civile al risarcimento dei danni subiti dalla moglie per l’appropriazione indebita e arbitraria del denaro. Motivo sufficiente, questo, a convalidare e a rendere definitivo l’avviso di accertamento Irpef che ora dovrà pagare.

Xu Jiayin, chi è mister cracIl ciclone cinese Evergrande

Si vantava di aver messo su la più grande squadra di calcio della Cina, per compiacere i sogni di gloria sportiva di Xi Jinping. Soprattutto, la storia di Xu Jiayin, il fondatore del colosso immobiliare Evergrande schiacciato dai debiti, è lo specchio della corsa cinese verso la prosperità, cominciata negli Anni 80.

Xu è nato nel 1958 in campagna, da una famiglia poverissima. «Da bambino e poi da ragazzo ho mangiato solo patate dolci e pane cotto al vapore, i vestiti erano stracci pieni di toppe». Dopo la Rivoluzione culturale, chiusa nel 1976 alla morte di Mao, il diciottenne Xu ottenne una borsa di studio che gli permise di andare all’università. «Devo tutto allo studio e al Partito comunista che mi ha permesso di istruirmi», ha detto dopo essere diventato miliardario, con la benedizione del Partito-Stato. La sua ascesa non è diversa da quella di altri capitani d’industria cinesi: sfruttò l’apertura al mercato ordinata da Deng Xiaoping e la possibilità data ad alcuni di «arricchirsi per primi, perché anche arricchirsi è glorioso». Ora vige la nuova parola d’ordine di Xi: «Basta con l’espansione caotica del capitalismo, la Cina ha bisogno di prosperità condivisa».

Nel 1996 l’ingegnere fondò a Guangzhou (Canton) l’azienda di costruzioni Hengda, che presto ribattezzò Evergrande, nome mezzo inglese e mezzo italiano per dire «Grande per sempre». Servivano case per gli operai che affluivano in città dalle campagne, appartamenti per la nuova classe media. L’ex ragazzo di campagna si impose presto come il re dei costruttori di Canton e si meritò anche un nome in cantonese: Hui Ka Yan. Nel 2017, con 47 miliardi di dollari di fortuna personale, il super-palazzinaro fu classificato «uomo più ricco della Cina». Ma sul mercato delle obbligazioni il suo gruppo è diventato sinonimo di eccessivo indebitamento, di quella bolla immobiliare considerata il principale rischio finanziario della Cina.

Xu Jiayin alias Hui Ka Yan è andato avanti per la sua strada di successi ed eccessi. Nel 2010 ha costruito il club calcistico Evergrande Guangzhou, spendendo centinaia di milioni per giocatori e allenatori comprati all’estero (Marcello Lippi lo ha guidato al successo in vari campionati, ora in panchina c’è Fabio Cannavaro). Nel 2014 ha venduto metà squadra a Jack Ma per 200 milioni di dollari. Il fondatore di Alibaba raccontò così l’investimento: «L’altra sera ero un po’ ubriaco, ho incontrato il mio amico Xu Jiayin che mi ha proposto l’affare e gli ho staccato un bell’assegno». Soldi in fumo: la bolla del pallone si è sgonfiata in Cina. È finito male anche lo sbarco di Evergrande nell’auto elettrica: una incursione che non ha prodotto nemmeno un prototipo.

Il miliardario rosso ha cominciato a scoprire di avere problemi quando nel 2017 Xi Jinping ha osservato che «la casa serve per viverci, non per speculare». Ora che il castello di carte di Evergrande si è afflosciato, il Partito-Stato manovra per evitare che il crac annunciato contagi l’economia. Ma i sogni di grandezza di Xu sono finiti.

Caro-bollette, arrivano le misure taglia-tariffe

Più 0,9% in un mese; +4.4% in tre mesi; +19,1% in un anno. Continua la corsa del fatturato dell’industria, che, dopo i picchi negativi dei primi sei mesi del 2020, rileva l’Istat, «segna un massimo storico, toccando il livello più elevato dall’inizio della serie storica (gennaio 2000). Gli aumenti sono in tutti i settori: +31,8% per l’energia; + 26,9% per i beni intermedi; +16,8% per i beni strumentali; +9,9% per i beni di consumo. Bene anche il mercato estero, cresciuto in un anno del 19,2%, anche se calato nel mese di luglio 2021 rispetto al mese di giugno dello 0,8%, ma il trimestre precedente aveva segnato un +5,8%.

Nel suo report sui Conti economici nazionali, l’Istat conferma anche le stime di marzo del Pil che nel 2020 ha avuto «una contrazione di entità eccezionale» con un tasso di variazione dell’8,9% e questo soprattutto a causa della caduta della domanda interna. Peggiorato invece il rapporto deficit/Pil, che ha toccato -9,6% «soprattutto a causa delle misure di sostegno per contrastare gli effetti della crisi».

Ed è previsto per oggi il decreto Bollette del governo per contrastare gli aumenti su elettricità e gas previsti dal primo ottobre. Il Consiglio dei ministri dovrebbe dare l’ok ad un intervento da circa 4 miliardi di euro che prevede il taglio (momentaneo) di alcuni oneri di sistema e l’ampliamento della platea della famiglie beneficiarie di bonus. Intanto, ieri la Federal Reserve ha annunciato che potrebbe avviare il rialzo dei tassi prima di quanto previsto dai mercati e quindi già dal 2022 (e non nel 2023) se i progressi economici miglioreranno. Il Pil secondo le previsioni dovrebbe infatti salire del 5,9% nel 2021, +3,8% nel 2022 e del 2,5% nel 2023. Il tasso di disoccupazione è stimato al 4,8% nel 2021 per poi scendere al 3,8 nel 2022 e al 3,5% nel 2023.

Corsa del gas, la Ue: interventi su Iva, accise e consumatori

Era il primo incontro dei ministri dell’Energia e Trasporti dei 27 Paesi Ue dalla presentazione a luglio da parte della Commissione del pacchetto «Fit to 55», che contiene le proposte legislative per raggiungere gli obiettivi climatici al 2030 e al 2050 che l’Ue si è data. Ma era inevitabile che sul tavolo del consiglio informale a Brdo, in Slovenia, finisse il tema dell’aumento del prezzo del gas e dell’elettricità che sta preoccupando gli Stati membri per le ricadute su famiglie e imprese. «Nelle prossime settimane verrà presentato un toolbox (cassetta per gli attrezzi, ndr) di misure conformi alle regole Ue che gli Stati membri possono usare da subito per intervenire sull’aumento dell’energia», ha detto la commissaria Ue all’Energia Kadri Simson.

La commissaria ha spiegato che i Paesi «già oggi possono agire sull’Iva e le accise, e con misure dirette per Pmi e consumatori vulnerabili» e che durante l’estate la Commissione ha già dato assistenza agli Stati Ue che hanno subito l’impatto l’aumento dei prezzi prima degli altri. «A partire da questo lavoro bilaterale — ha detto — presenteremo un pacchetto di strumenti che possa aiutare gli Stati membri a scambiarsi esperienze e navigare tra le opzioni disponibili». Una regia comune per soluzioni individuali. «Vediamo che le ragioni per l’aumento nei prezzi dell’energia all’ingrosso sono principalmente globali, e dunque comuni a tutti gli Stati membri, ma i consumatori privati nell’Ue potrebbero percepire un diverso impatto perché i prezzi all’ingrosso rappresentano in media solo un terzo della bolletta». Del resto l’energy mix cambia da Paese a Paese e questo fa sì che il costo della bolletta energetica cambi. Poi ci sono le tasse e altri oneri a seconda degli Stati. Ma le differenza non si limitano alla struttura della bolletta, riguardano appunto anche la produzione. Ci sono pure differenze sullo stoccaggio del gas. L’arrivo della stagione fredda crea preoccupazione in alcuni Stati di fronte alla riduzione dei flussi provenienti dalla Russia. Gli stoccaggi italiani, che come quelli francesi sono regolati, sono pieni per oltre l’80%, mentre Germania e Olanda sono al 60% e il Regno Unito non ne ha più (ha chiuso l’ultimo nel 2017).

Lunedì scorso la Spagna ha scritto alla Commissione per chiedere che siano definite a livello europeo linee guida che consentano agli Stati membri di reagire immediatamente quando il mercato energetico è sotto stress e di adottare misure per prevenire la speculazione finanziaria nel mercato degli Ets (il sistema lo scambio delle quote di CO2). Tra le richieste c’è anche la riforma del mercato elettrico. Per Madrid c’è il rischio di mettere in pericolo sia la ripresa economica sia la transizione verde. «Non credo che la struttura del mercato dell’elettricità abbia contribuito all’aumento dei prezzi», ha detto Simson, aggiungendo che «un mercato integrato dell’energia è il modo più efficace, in termini di costi, per garantire una fornitura sicura e a prezzi accessibili ai cittadini europei». Per la Commissione Ue la via da seguire è l’aumento della produzione da fonti verdi e il miglioramento dell’efficienza energetica: «Quello che vediamo — ha osservato — è che le fonti rinnovabili ora stanno offrendo i prezzi migliori ai consumatori».

Il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini ha ribadito il sostegno italiano al pacchetto «Fit for 55» sottolineando che richiederà un approccio coordinato e coerente che coinvolgerà numerosi settori.

Oggi l’ok: così cambia il processo penale

Doppio voto di fiducia anche al Senato per la riforma Cartabia sul processo penale che oggi attende il varo definitivo. È finita con 208 sì e 28 no nella prima votazione e 200 sì e 27 no nella seconda.. Con i voti contrari soprattutto tra FdI e Gruppo Misto. Qualche mal di pancia tra i Cinque Stelle: il presidente della commissione antimafia, Nicola Morra, ha definito «pannicello caldo» i correttivi alla riforma, dichiarando: «Questo governo tiene poco all’azione di contrasto alle mafie. Perché chi avrà i soldi potrà ricorrere all’improcedibilità». Matteo Renzi invece rilancia: «Ottimo primo passo», ora occorre andare avanti, contro il «vergognoso strapotere della magistratura» in una situazione «che si colloca nel momento più tragico della storia del potere giudiziario». Cosa taciuta, denuncia, perché «siamo in molti a rinunciare al gusto della verità per paura».

Una cinquantina gli assenti. Uno era proprio lui, il leader di Italia viva, che ha annunciato: «Voteremo con convinzione» la riforma che «toglie la riforma Bonafede». Ma ha votato solo la prima fiducia. È mancato all’appello, ingiustificato, anche il leader della Lega, Matteo Salvini. Tra i Cinque Stelle sono risultati assenti ingiustificati in due. Ma anche in Forza Italia almeno in 4 hanno mancato la chiama. Cosa che generato il sospetto di una maretta interna a Forza Italia.

Oggi dovrebbe comunque diventare definitiva la riforma che ha generato forti tensioni all’interno della maggioranza proprio per l’istituzione dell’improcedibilità. Un nuovo istituto per il quale il reato non si prescrive più, ma il processo si estingue alla scadenza di due anni per l’Appello e uno per la Cassazione, prolungabili rispettivamente di un anno e di sei mesi per fascicoli di particolare complessità. Proroghe fortemente volute dal M5S che possono essere sempre concesse dal giudice nei processi per particolari categorie di reati, mafia, terrorismo, violenze sessuali, traffico di stupefacenti, e per due volte nei processi per i reati ad aggravante mafiosa. Per le impugnazioni proposte fino a fine 2024 è previsto un regime transitorio che allunga ulteriormente i termini base a tre anni (in Appello) e un anno e mezzo (in Cassazione).

La ministra Cartabia ieri in un saluto inviato al webinar organizzato da Di Re (Donne in rete contro la violenza) ha scritto: «Le riforme del processo civile e del processo penale contengono norme attente ai problemi della violenza di genere». Ma non basta. «L’introduzione del Tribunale delle persone, della famiglia e dei minorenni intende restituire omogeneità alle decisioni complesse e delicate che incidono sul tessuto familiare e sulla vita dei minori indifesi rispetto alla violenza agita dagli adulti».

Todde “Gkn una lezione per tutti Le imprese? Hanno già avuto molto”

«Oggi è prevista la firma del memorandum of understanding per l’ingresso di Invitalia in Jsw Steel. È la ripartenza del progetto dell’acciaieria di Piombino». Alessandra Todde, 52 anni, ha un passato da manager. Inevitabile, per lei che è viceministro dello Sviluppo Economico, partire da un fatto concreto come la svolta che, dopo Ilva e Ast, riporta anche la terza capitale storica della siderurgia sotto la bandiera italiana.D’accordo l’acciaio. Ma restano irrisolte tante crisi industriali. Cosa insegna la sentenza che ha annullato i licenziamenti a Gkn?«È stato un grande passo per i lavoratori che da mesi presidiano la fabbrica. Il risultato degli sforzi sinergici portati avanti dalle Istituzioni, dai sindacati, dai lavoratori e da tutta la comunità, in un contesto difficile con una azienda che ha smarrito il senso di responsabilità sociale».Confindustria sostiene che in parte del governo aleggia un’ideologia anti-imprese.«Rispondo con i fatti. In due anni, i governi Conte-bis e Draghi hanno stanziato per le imprese 115 miliardi tra aiuti diretti, sgravi fiscali e misure di settore. Altri 32 miliardi sono stati destinati agli ammortizzatori sociali e a misure di decontribuzione. Le imprese hanno inoltre usufruito di 216 miliardi di crediti erogati con garanzia dello Stato. E ora con i 235 miliardi del Pnrr possiamo consolidare la ripresa e costruire un nuovo patto sociale».Sul Green pass il governo ha ascoltato più le imprese che il sindacato…«Giusta l’obbligatorietà, siamo all’ultimo miglio della campagna vaccinale. E Conte ha ragione: concentriamoci su maggiori riaperture».In Italia manca una vera politica industriale. Non crede?«Certo, dobbiamo assolutamente tornare a fare politica industriale, ma non è corretto scambiarla con la giustificazione di atteggiamenti predatori e non etici da parte delle imprese. Ad esempio la Francia ha annunciato 8 miliardi e la Spagna oltre 3 miliardi a favore della transizione all’elettrico. Non possiamo permetterci di restare indietro. Bene, comunque, la volontà di mantenere la produzione di Melfi e di aprire la terza gigafactory proprio in Italia».”Giustificare atteggiamenti predatori delle imprese”: a chi si riferisce? Pensa ai contrasti nel governo sul decreto delocalizzazioni?«Le misure sulla responsabilità sociale d’impresa vanno introdotte e sono contenta che la maggioranza della politica se ne sia resa conto. Il M5S è compatto al mio fianco in questa battaglia, il Pd sostiene il lavoro fatto con il ministro Orlando, Leu ha sempre ribadito il suo sostegno politico. Le grandi aziende, non in crisi, che hanno preso soldi pubblici e che intendono licenziare o decentrare le produzioni, è giusto che seguano percorsi normati e ordinati, proprio nel segno della responsabilità sociale».La Lega che considera l’impostazione originaria del provvedimento punitiva per le imprese…«Credo nel dialogo. Non ho mai imposto a nessuno il mio modo di lavorare o le mie posizioni politiche.Vengo da 30 anni di vita di impresa e di azienda in cui non ho utilizzato un euro di denaro pubblico. Mi è stata insegnata l’etica del lavoro, la responsabilità sociale, di credere nel dialogo e quindi nella politica e so che significa parlare con chi, nei vari campi di appartenenza, ogni giorno vive e affronta le contraddizioni del Paese. Le misure andranno in porto».Su lavoro e impresa, M5S e Pd condividono radici politiche.Perchè l’alleanza stenta?«Il rapporto col Pd, così come con Articolo 1 e con Leu, è una strada da seguire, soprattutto per costruire un campo progressista plurale e forte che sia argine politico alle destre e alle forze conservatrici. Ma facciamo alleanze solo dove ci sono condizioni idonee. Non in Sardegna a Carbonia, ad esempio, dove il Pd si è alleato con componenti di centrodestra».

Giustizia, l’ultimo sì ridotti di un quarto i tempi dei processi

En plein al Senato sulla giustizia. Un unicum, in verità. Non era mai accaduto che in soli due giorni una delle due Camere licenziasse riforme così pregnanti per la giustizia penale e quella civile. Due richieste di fiducia. Ieri quella sulla riforma del processo civile, che si è chiusa con 201 voti a favore e 30 contrari. A votare contro FdI e Alternativa c’è. Tra oggi e domani nuova fiducia sul processo penale. Il civile dovrà andare a Montecitorio. Il penale otterrà il via libera verso i decreti legislativi. Sulla giustizia il governo rispetta i tempi del Pnrr che dà alla Italia 2,3 miliardi per ridurre i tempi della giustizia civile del 40% e quelli del penale del 25%.A parte la protesta dei senatori del gruppo di Altermativa c’è con in testa Mattia Crucioli, arrivati allo scontro con la maggioranza mentre in commissione si discutevano proprio i loro 1.700 emendamenti al processo penale, stavolta tutto è filato liscio. I giorni caldi della Camera, tra fine luglio e inizio agosto con le richieste di M5S sul processo penale, sono alle spalle.Eppure proprio la Guardasigilli Marta Cartabia, mentre ieri mattina visitava gli uffici giudiziari di Perugia per il suo tour in tutte le corti di Appello, aveva parlato della sua “strana” maggioranza. Eccola dire: “Le riforme della giustizia stanno partendo in un contesto molto particolare che ha dei condizionamenti legati alla pandemia con cui tuttora facciamo i conti e con un governo supportato da una maggioranza molto ampia che è un punto di forza, ma anche molto variegata”. Ma al Senato, stavolta, non ci sono stati i venti di guerra. M5S plaude al voto sul civile che nasce dalla riforma presentata dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Sono soddisfatti gli esponenti del Pd, la responsabile Giustizia Anna Rossomando e il capogruppo in commissione Franco Mirabelli, che giudicano il voto sul civile “un passo avanti importante sia per la giustizia italiana che per rispettare gli impegni del Pnrr”.

Cartelle, debitori seriali 7,2 milioni di contribuenti

I debitori del Fisco sono seriali. Ogni anno 7,2 milioni di contribuenti ricevono una cartella senza aver saldato il conto (in tutto o in parte) anche per quelle ricevute in anni precedenti. I carichi affidati annualmente ad agenzia delle Entrate-Riscossione (Ader) ammontano a circa 80 miliardi. Di questi la gran parte (55,5 miliardi) sono di competenza dell’agenzia delle Entrate, quindi riguardano contestazioni di carattere fiscale. Scendendo ancora di più nel dettaglio, il 58% è riferito ad avvisi di accertamento non pagati nei termini, mentre il 38,4% ad avvisi di liquidazione ossia essenzialmente imposte non versate. Inoltre, il 60,7% dei contribuenti con una cartella a carico ha debiti non superiori a mille euro.

È quanto emerge dalle risposte di agenzia Entrate-Riscossione ai quesiti posti dal senatore Emiliano Fenu (M5S), correlatore in commissione Finanze al Senati del documento sullo stato del recupero coattivo depositato dal Mef a metà luglio. Risposte che contengono anche una comparazione su dilazione del debito e procedure cautelari ed esecutive tra l’Italia e i principali paesi europei.

I numeri dicono che gli italiani si indebitano con la riscossione per almeno 80 miliardi l’anno. Ma c’è un fenomeno costante rappresentato dal fatto che su otto milioni di destinatari di cartelle addirittura il 90% è recidivo, ossia ha già una pendenza non saldata.

A rendere ancora più difficoltoso delle somme non pagate, spiega agenzia Riscossione, è il fatto che il 57% dei contribuenti ha debiti pregressi superiori a 50mila euro. Ad aggravare la situazione ci sono poi le singole posizioni soggettive che impediscono il recupero: dallo stato di insolvenza al fallimento dell’attività fino ad arrivare al decesso del contribuente persona fisica.

Proprio alla luce della sproporzione tra chi ha già debiti che non riesce o non intende pagare e chi invece è per la prima volta destinatario di un atto della riscossione, i senatori nel parere finale potrebbero suggerire di inserire nel progetto di riforma della riscossione la creazione di un meccanismo specifico per i debitori seriali in modo da non appesantire le procedure di recupero della riscossione ordinaria.

Un’altra riflessione obbligata emerge dall’origine delle cartelle relative a contestazione dell’agenzia delle Entrate. Come anticipato, il 58% del carico affidato da quest’ultima annualmente alla Riscossione (pari a un controvalore di 32,2 miliardi) deriva da avvisi di accertamento. Questo impone di andare a verificare se le somme contestate e poi iscritte a ruolo sono realmente fondate o meno.

Nelle risposte fornite alle richieste dei senatori, emerge anche che rispetto agli altri principali Paesi europeo l’attività di recupero coattivo in Italia presenta delle forti limitazioni, almeno ad avviso della Riscossione. Si va, nella ricostruzione fornita da Ader, dall’impignorabilità della prima casa alla mancata deterrenza della possibilità di rientrare nei piani di pagamento dilazionato anche dopo l’eventuale fuoriuscita a causa dei tanti interventi in materia succedutisi negli ultimi anni.

Infine, le risposte evidenziano la necessità di arrivare a un ente unico tra Entrate e Riscossione per potenziare l’attività di recupero.

Transfer pricing, dati dettagliati nella documentazione nazionale

La circolare delle Entrate in consultazione fino al 12 ottobre (si veda «Il Sole-24 Ore » di ieri) tratta una serie di argomenti utili a costruire una solida documentazione di transfer pricing, che in caso di verifica possa consentire la disapplicazione delle sanzioni. In pratica il vantaggio della penalty protection è che vi potrà anche essere una contestazione sui metodi adottati che possa far emergere un maggior imponibile, ma senza che ciò comporti sanzioni (dal 90% al 180%).

La casistica è vasta, perché coinvolge tutte le imprese che intrattengono rapporti di gruppo tali per cui si applichi la disciplina dell’articolo 110, comma 7, del Tuir. Così come è ampio l’onere della documentazione, perché l’entità italiana che vuole approfittare di questo regime non potrà esimersi dal predisporre tanto il master file quanto il country file, non essendo più previsto l’esonero del master file per le sole controllate.

Sul master file l’Agenzia ha richiamato i contenuti del provvedimento del 23 novembre 2020 (si veda «Il Sole-24 Ore» del 7 settembre). Stesso richiamo anche per la documentazione nazionale su cui ci concentriamo.

Il primo paragrafo è di tipo descrittivo. Si richiede un focus da un lato sulla struttura operativa dell’entità locale, individuando anche i riporti all’estero del personale locale, che consente di comprendere le logiche delle funzioni e della catena di comando. Il tutto si completa poi con l’individuazione della strategia perseguita, se questa è mutata, se ci sono state operazioni straordinarie e da ultimo le informazioni sui concorrenti.

Il secondo paragrafo descrive le operazioni infragruppo, che possono anche essere raggruppate per categoria omogenea. Andrà in primis descritta l’operazione, indicando i pagamenti effettuati o ricevuti, le imprese associate coinvolte, le operazioni comparabili (interne ed esterne) e gli indicatori finanziari. Circa i pagamenti, l’Agenzia chiarisce che il concetto è quello della competenza, mentre per ciò che concerne royalties e interessi su cui si applica la ritenuta il concetto è quello della cassa. Va sviluppata l’analisi di comparabilità anche in base all’analisi funzionale. Si passa quindi all’indicazione del metodo prescelto, con le motivazioni alla base (se si sceglie un reddituale in presenza di un tradizionale o se si sceglie di non utilizzare il Cup). E poi ai criteri di applicazione del medesimo, evidenziando:

l’impresa associata da sottoporre ad analisi;

l’analisi pluriennale;

le rettifiche di comparabilità;

la strategia di ricerca;

l’intervallo di valori conformi al principio di libera concorrenza.

Tutti questi aspetti testimoniano la necessità di scendere in profondità nelle descrizioni, per individuare ad esempio il data base utilizzato, gli indicatori prescelti o il posizionamento nell’ambito dell’intervallo. Quindi andranno illustrati i risultati e le assunzioni critiche.

Il terzo paragrafo è dedicato alle informazioni finanziarie, con i conti annuali (eventualmente revisionati), i prospetti in grado di riconciliare i dati finanziari utilizzati nel metodo prescelto col bilancio d’esercizio, i prospetti di sintesi dei dati finanziari dei comparables utilizzati nell’analisi e le relative fonti. In allegato sono richiesti gli accordi infragruppo, quelli di ripartizione dei costi, gli eventuali accordi preventivi e ruling preventivi.

Per le branch il capitolo 3 del country file va corredato dal rendiconto economico e patrimoniale della stabile organizzazione, redatto secondo i principi contabili previsti per i soggetti residenti aventi le medesime caratteristiche e dal bilancio di esercizio individuale di casa madre per il periodo d’imposta di riferimento, se previsto ai fini dell’informativa finanziaria, regolamentare, di gestione interna, ai fini fiscali o per altre finalità.

Infine viene chiarito l’onere documentale per i servizi a basso valore aggiunto (costi diretti e indiretti più mark up del 5%). In tali casi è richiesta una profonda panoramica degli addebiti e accrediti e l’estrinsecazione delle chiavi di allocazione. A riprova che l’esercizio della documentazione non è formale ma sostanziale.

Stellantis, Manley lascia a Tavares le “Americas” Sarà ceo di AutoNation

Mike Manley lascia il gruppo Stellantis. Il manager, già ceo di Fca, abbandona il suo ruolo di Head of Americas di Stellantis per assumere il ruolo di ceo di AutoNation Inc., il più grande rivenditore automobilistico americano, con sede in Florida, dal 1 novembre 2021. A distanza, così, di appena 8 mesi dalla nascita del quarto gruppo mondiale del settore auto cambia l’organigramma di Stellantis, con l’attuale Ceo Carlos Tavares che prende le deleghe del manager ex Fca. Manley non sarà infatti sostituito, almeno nel breve. La nota diffusa dal gruppo spiega che Mark Stewart, Chief Operating Officer Nord America, e Antonio Filosa, Chief Operating Officer Sud America, membri del Comitato Esecutivo, riporteranno direttamente all’amministratore delegato Tavares. Con il risultato che nella vecchia ripartizione dei ruoli tra la squadra Fca e quella Psa, il gruppo italo americano perde uno degli esponenti di spicco, il manager artefice del rilancio del marchio Jeep e per anni braccio destro dell’ex numero uno Sergio Marchionne.

«Dopo 20 anni incredibili, stimolanti e divertenti, e con Stellantis che ha iniziato davvero forte sotto la guida di Carlos, è giunto il momento per me di iniziare un nuovo capitolo», ha dichiarato Mike Manley. «Lavorare con Carlos (Tavares, ndr) per creare questa straordinaria azienda, con il supporto costante dei nostri azionisti, è stato un enorme privilegio sia dal punto di vista professionale che personale. Sono molto orgoglioso dei nostri team in Stellantis che stanno facendo un lavoro eccellente e auguro a loro e a Carlos ogni successo nel continuare il loro straordinario viaggio. Infine, sono molto onorato di essere stato invitato a far parte del consiglio di amministrazione della Fondazione Stellantis», ha aggiunto Manley.

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Mike Manley, classe 1964, per vent’anni nel gruppo Fca, ha lavorato a fianco di Carlos Tavares al progetto di fusione con Psa, da cui è nata Stellantis. Inglese di Edenbridge, Manley è entrato nel gruppo Daimler Chryser nel 2000 ed è l’uomo del miracolo Jeep: ha assunto nel 2009 le redini del brand, che ha portato a un vero exploit di vendite da 300.000 a 1,4 milioni in dieci anni. E’ stato anche responsabile del brand Ram. Dopo la morte di Sergio Marchionne ha assunto le redini del gruppo Fca: è stato nominato amministratore delegato il 21 luglio 2018, pochi giorni prima della scomparsa del manager italocanadese. In Stellantis aveva assunto la guida delle regioni americane.

«Ho avuto la fortuna di conoscere Mike prima come concorrente, poi come partner e collega nella creazione di Stellantis, ma – soprattutto – sempre come amico», ha dichiarato Carlos Tavares. John Elkann, presidente di Stellantis, ha ringraziato «Mike per tutto quello che ha fatto con noi negli ultimi 20 anni».

Ita tratta con due compagnie Usa, ma è scontro sul marchio Alitalia

Audizione a porte chiuse dei vertici di Ita alla Camera e tensione sempre più alta, non solo tra l’azienda e i sindacati, ma anche con esponenti della maggioranza. Alfredo Altavilla, il presidente esecutivo della nuova compagnia che vuole decollare il 15 ottobre, ieri è andato all’attacco dei commissari di Alitalia per la valutazione del marchio di 290 milioni di euro, a suo avviso «irrealistica», prezzo base di gara per la vendita del brand. È stato criticato da Pd, M5S, Leu, dopo la decisione di assumere personale senza contratto collettivo, per non aver voluto la pubblicità dell’audizione alle commissioni Trasporti e Lavoro della Camera.

Il bando per il marchio Alitalia «ci ha sorpresi, il valore è irrealistico», ha detto Altavilla a margine dell’audizione. «Se una compagnia in 11 anni ha generato 3,5 miliardi di perdite operative, mi sembra una valutazione non realistica», ha sottolineato. Ha reso noto che il cda di Ita è convocato per venerdì 24 settembre per decidere se partecipare alla gara per la vendita del marchio.

I commissari di Alitalia hanno replicato con una nota nella quale «confermano che la stima rappresenta il valore minimo risultante da una perizia, dovuta per legge e operata da un professionista terzo incaricato dalla procedura, previo parere favorevole del comitato di sorveglianza».

Alla gara non parteciperà easyJet. All’Airbus summit di Tolosa (altro servizio a fianco), Il Sole 24 Ore ha chiesto all’a.d. della low cost, Johan Lundgren, se intenda partecipare alla gara per il marchio. Lundgren è scoppiato a ridere: «Siamo molto orgogliosi del nostro marchio». E ha puntualizzato: «Non abbiamo alcun piano di comprare il marchio Alitalia».

La mancata trasmissione via webtv dell’audizione di Ita e dell’a.d. Fabio Lazzerini ha fatto venir meno la trasparenza sui lavori del Parlamento. I manager di Ita hanno chiesto la riservatezza dicendo che si citavano nomi di società con cui ci sono trattative. Al Sole risulta che sono stati fatti i nomi di due compagnie americane con le quali Ita tratta per alleanze strategiche. Una è Delta Air Lines, che ha già un accordo commerciale con Alitalia ed è legata a Air France-Klm, l’altra è United Airlines, partner di Lufthansa nella Star Alliance. Da Ita non ci sono commenti.

Altissima la tensione con i sindacati per la rottura delle trattative sul contratto e per gli esuberi. Dopo la manifestazione a San Silvestro ieri mattina, dalle 15 c’è un presidio con circa 300 lavoratori a Fiumicino. Alitalia ha consigliato ai viaggiatori di portare solo il bagaglio a mano, affermando che «a causa delle riunioni sindacali di categoria che si stanno tenendo in queste ore (…) si potrebbero verificare dei ritardi nell’erogazione dei servizi Alitalia».

Fabrizio Cuscito, segretario nazionale Filt-Cgil, ha detto che «Ita ha cominciato i colloqui per assumere i lavoratori», per chiamata diretta sulla base di un regolamento aziendale unilaterale. Le assunzioni sarebbero cominciate a mezzogiorno. Altavilla ha detto che l’Enac ha chiesto di fornire i nominativi del personale degli equipaggi entro il 23 settembre. «Ci hanno proposto un taglio del 40% degli stipendi», ha detto Cuscito.

Altavilla ha affermato che le retribuzioni «sono perfettamente allineate e in alcuni casi superiori al contratto nazionale». Un sindacalista osserva che «forse in Ita considerano i valori base del livello zero». Ita ha consegnato ieri ai sindacati il regolamento aziendale, 94 pagine. Ci sono anche tabelle «super minimo» per dipendenti ex Alitalia. Altavilla avrebbe detto che 52 piloti della Ryanair hanno presentato domanda per lavorare in Ita, anche se la low cost ha negato.

«Non è assolutamente possibile giustificare l’atteggiamento che ha tenuto Ita. Noi riteniamo che si debbano creare le condizioni per riaprire una trattativa», ha detto la capogruppo Pd alla Camera Debora Serracchiani. Stamattina i vertici di Ita andranno al Senato in commissione Lavori pubblici.

Nexi, fusione con Sia entro fine anno In Grecia il target è Eurobank

Nexi si avvicina alla fusione con Sia e intanto guarda alla crescita ulteriore per acquisizioni in Grecia. L’amministratore delegato Paolo Bertoluzzo, a margine del convegno sul fintech Money 2020 in corso di svolgimento ad Amsterdam, ha disegnato i passi imminenti che porteranno il gruppo italiano, nato dalla ex-Icbpi, al matrimonio ormai vicino con la controllata di Cdp, cioè Sia, e a crescere ulteriormente all’estero, soprattutto nei Paesi del Mediterraneo, dove potrebbero in futuro presentarsi opportunità di acquisizioni.

«Confidiamo di chiudere l’operazione con Sia entro fine anno. Il percorso autorizzativo prosegue in linea con le nostre aspettative» dice Bertoluzzo ed è attesa la chiusura dell’istruttoria entro meta ottobre . Nel dettaglio, manca ancora l’autorizzazione dell’Antitrust italiano, quella delle authority danesi e il via libera finale di Consob. Ma tutto prosegue in linea con le aspettative e si avvicina quel riassetto atteso ormai da un oltre un anno e che porterà a mutare l’azionariato della nuova Nexi: la Cassa Depositi e Prestiti avrà circa il 17%, Intesa Sanpaolo circa il 6%, mentre i fondi di private equity (Bain Capital, Advent, Clessidra e Hellman & Friedman) circa il 30%, quota destinata ad essere ridotta nel tempo tramite futuri collocamenti. In particolare la Cassa per ora resterà al 17% e non sfrutterà l’opzione a disposizione per salire al 25%, inizialmente prevista tramite aumento di capitale dopo l’operazione tra la stessa Nexi e Nets, che era stata fonte di diluizione.

Nel frattempo, il settore del fintech continua a fornire segnali di grande fermento. Il gruppo Square ha appena offerto 29 miliardi di dollari per rilevare l’australiana Afterpay, a dimostrazione che le fusioni stanno continuando a livello internazionale e che i multipli del settore proseguono ad essere a due cifre. In questo contesto Nexi valuta opportunità di altre acquisizioni. «Siamo totalmente concentrati sulla crescita organica e al consolidamento delle ultime operazioni, ma non escludiamo ulteriori acquisizioni nel caso ci fossero opportunità» spiega Bertoluzzo. «Per quanto riguarda i settori specifici, puntiamo a crescere, oltre che nel merchant book, anche nell’e-commerce. E poi, sul lato geografico, ci sono mercati come la Grecia che continuano ad interessarci». Proprio Atene del resto è stata la destinazione dell’ultima operazione: cioè l’acquisto del 51% della joint venture con Alpha Bank nei pagamenti digitali. Ora il prossimo target potrebbe essere Eurobank. Il mercato ellenico è in rapida crescita e la stessa Bank of Greece è in trattative in questo settimane con il gruppo Evo Payments , mentre Euronet Worldwide ha acquistato le attività di merchant acquiring di Piraeus Bank. «Il mercato greco è più piccolo, ma con caratteristiche simili a quello italiano: ha ancora una penetrazione digitale abbastanza bassa e quindi alti tassi di crescita in prospettiva. Le banche svolgono un ruolo cruciale e il Governo greco sta mostrando grande attenzione ai pagamenti digitali» afferma Bertoluzzo. In questo scenario Nexi continua a muoversi sul mercato italiano, che vale complessivamente 253 miliardi su 949 miliardi di spesa complessiva. La società prevede una crescita del 10% dei ricavi sul 2020 (2,1 miliardi senza l’integrazione di Sia) e un ebitda in rialzo dell’11-13 % (da 975 milioni nel 2020). Sia ha invece generato in sei mesi 382 milioni di ricavi e 146 di ebitda. La nuova realtà avrà 5 miliardi di debiti netti con un rapporto debito/Mol previsto a fine 2022 a 2,5 volte.

Universal, Bolloré all’en plein: dallo spin off 1 miliardo in più

Universal music group schizza al rialzo al suo debutto alla Borsa di Amsterdam, dove ha chiuso in progresso di oltre il 35%, passando da un valore di riferimento iniziale di 18,5 euro a 25,10 euro per azione, per una capitalizzazione balzata dai 33,5 miliardi iniziali a oltre 45 miliardi. Al mercato piace evidentemente la ritrovata indipendenza da Vivendi, la media company transalpina che ha regalato ai suoi azionisti il 59,87% di quella che era la la sua gallina dalle uova d’oro, a ’mo di dividendo in natura. Una mossa che ha fatto contenti tutti, a partire dal primo socio, Vincent Bolloré, che nello spin-off ha visto lievitare di circa un miliardo il valore delle due partecipazioni in portafoglio rispetto ai massimi raggiunti a inizio settembre.

Dopo il distacco da Universal, Vivendi – che conserva ancora una quota residua del 10,3% nella major Usa – si è sgonfiata alla Borsa di Parigi di oltre i due terzi, scendendo a 10,5 euro per azione, con una capitalizzazione ridimensionata a 11,6 miliardi. Il 27% che Bollorè detiene nella società – tra l’altro primo azionionista di Telecom Italia con una quota vicina al 24% – vale ora poco più di 3 miliardi, ma il 16,2% che ha ottenuto direttamente in Universal, dopo l’exploit del debutto al listino olandese, ha superato abbondantemente i 7 miliardi di controvalore.

A fregarsi le mani anche il gestore di hedge fund americano William Ackman che, dopo aver dovuto rinunciare all’acquisto di una quota con una Spac questa estate, si è comprato direttamente il 10% di Universal a settembre sulla base di una valutazione della società di 35 miliardi e oggi può già vantare sulla carta una lauta plusvalenza. Ancora meglio è andata al gruppo cinese Tencent che lo scorso anno, in due rate, aveva rilevato il 20% di Umg sulla base di una valutazione di 30 miliardi.

Per la Borsa di Amsterdam, che fa parte del circuito Euronext ed è la piazza continentale che più ha beneficiato dell’effetto Brexit, quella di Universal Music è la quindicesima nuova quotazione dall’inizio dell’anno.

Universal, che è la più grande etichetta musicale al mondo, è arrivata a valere nel corso del primo giorno di contrattazioni ufficiali fino a 47 miliardi di euro, conquistando così il primato della principale matricola europea, per dimensioni, di quest’anno. La società, che è cresciuta ininterrottamente per sei anni consecutivi, prevede di aumentare il fatturato anche quest’anno di almeno il 10%. La crescita dei profitti è stata del 20% all’anno già a partire dal 2017 e per quest’anno è stato promesso un pay-out del 50%.

In una nota il gruppo francese, che fino all’inizio dello scorso anno deteneva il 100% della major Usa, ha confermato che la distribuzione in natura delle azioni Umg agli azionisti di Vivendi è realizzata nel rapporto di un’azione Umg ogni azione Vivendi con data di stacco fissata per ieri e regolamento dell’operazione domani, 23 settembre. Il numero di azioni distribuite rappresenta il 59,87% del capitale e Vivendi conserverà il 10,13% di Umg. Il valore totale della distribuzione si compone di 5,3 miliardi di euro, pari a 4,89 euro per azione Vivendi, di dividendo speciale da distribuzione delle riserve e 22,098 miliardi (20,36 euro per azione) di acconto sul dividendo in natura relativo al 30 giugno, come stabilito dal management lo scorso 14 settembre.

Per Vivendi la scommessa è che il riassetto contribuisca a ridurre lo sconto holding. Dopo aver apparentemente accantonato il progetto di diventare la Netflix europea, Vivendi si sta concentrando piuttosto sul mercato domestico. È di pochi giorni fa l’annuncio dell’accordo con Amber per rilevare la quota del fondo attivista nel gruppo Lagardére, che ha in portafoglio la casa editrice Hachette. Vivendi staccherà un assegno da oltre 600 milioni, a garanzia dell’acquisto della quota di Amber, pari a poco meno del 18%, che porterà la sua partecipazione complessiva al 45,1% del capitale e al 36,1% dei diritti di voto, creando così le condizioni per il successivo lancio di un’Opa obbligatoria sulla società, che detiene anche la catena dei negozi di viaggo Travel retail, per una valorizzazione superiore a 3,3 miliardi. Dopo aver rinunciato all’assedio a Mediaset – con un accordo che porterà Vivendi a ridimensionare progressivamente la quota nel Biscione – è ora da capire che fine farà la partecipazione in Telecom, visto che da tempo la media company transalpina è uscita dal settore delle tlc.

Crisi d’impresa, sulle nuove norme il nodo delle penalità sui licenziamenti

Resta un’impresa complicata trovare un’intesa tra ministero del Lavoro e ministero dello Sviluppo economico sulle norme che regolano il comportamento delle grandi imprese che intendono chiudere un sito produttivo in Italia. Difficile, ma non da escludere secondo alcune fonti di governo, l’approdo al consiglio dei ministri di domani. Le misure si applicherebbero alle realtà con almeno 250 dipendenti che chiudono «per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza».

Il provvedimento, che potrebbe assumere la veste di emendamenti al decreto sulle crisi d’impresa all’esame del Senato o in extremis tornare a prendere la forma del decreto come inizialmente ipotizzato, conterrà una parte cui sta lavorando principalmente il ministero guidato da Andrea Orlando, sugli obblighi di informazione preventiva e il piano di mitigazione delle ricadute occupazionali, e una parte curata dal dicastero di Giancarlo Giorgetti che dovrebbe legare la concessione degli incentivi ad impegni occupazionali per lavoratori coinvolti nelle situazioni di crisi, in sostanza trasferendo in una norma quanto già deciso con un atto d’indirizzo alle direzioni generali. Allo Sviluppo si valuta anche la possibilità di concedere agevolazioni specifiche sugli immobili strumentali, in pratica capannoni in dismissione, nel caso di cessione con continuità dei livelli occupazionali.

I due ministri, non è un mistero, sono su piani lontani per quanto riguarda i dettagli tecnici del provvedimento, e in primis gli oneri che ricadrebbero sull’azienda nel caso in cui non presenta il piano per limitare le ricadute occupazionali o questo non porti alla stipula di un accordo sindacale. Il contributo di licenziamento per singolo lavoratore, che una prima bozza ipotizzava decuplicato e una successiva versione raddoppiato, nell’ultima ipotesi di testo sarebbe di nuovo salito con aumento di sei volte. Non ci sarebbe invece più traccia dell’altra sanzione originariamente prevista, cioè lo stop a contributi e finanziamenti pubblici per i successivi 5 anni (erano già uscite di scena ipotesi di black list e di maxi multe sul fatturato). Del resto, oggi sono già previste sanzioni: con il decreto dignità, articolo 5, si stabilisce che le aziende che hanno beneficiato di contributi pubblici, e delocalizzano, entro 5 anni dalla conclusione dell’iniziativa agevolata decadono dal beneficio. E c’è poi la normativa del decreto crescita sui marchi storici.

Il provvedimento conferma una sorta di preavviso attivo di 90 giorni da parte dell’azienda (che intende chiudere il sito produttivo, e quindi procedere ai licenziamenti collettivi). Entro tre mesi l’impresa è tenuta a presentare il piano di mitigazione socio-economica che prevede anche misure di politica attiva (si starebbe pensando di farle rientrare nell’ambito del programma Gol, e non quindi a carico delle imprese). Si ipotizza anche di concedere nuove settimane di cigs per prospettata cessazione per salvaguardare, il più possibile, il perimetro occupazionale (e per favore processi di ristrutturazione o riconversione industriale).