13.07.2020 Icon

Preclusione per tolleranza. La Corte di Appello di Milano chiarisce i limiti applicativi

Torniamo ad occuparci della vertenza Riva, ovvero la questione sorta in ordine al diritto d’uso del marchio RIVA tra lo storico Cantiere Ernesto Riva, sulle rive del lago di Como, e il famoso marchio della Ferretti S.p.a., sulle rive del lago di Sarnico.

Il round in Appello si è concluso con una pregevole pronuncia della Corte di Milano (relatore e presumibilmente estensore il Presidente stesso, Dott. Domenico Bonaretti) con cui, tra le altre cose, viene chiaramente esposto il limite di applicabilità dell’istituto della preclusione per coesistenza di elaborazione giurisprudenziale di origine comunitaria.

La pronuncia, è di particolare interesse laddove chiarisce che il segno sul quale matura il diritto alla registrazione per prolungato uso pacifico in buona fede non è il medesimo sul quale matura il diritto all’uso. Più precisamente: l’uso incontestato di un segno di fatto consente al suo titolare di ottenerne una nuova registrazione, nonostante l’esistenza di una precedente registrazione di altro soggetto di un segno confondibile, se la pacifica convivenza con il primo registrante si è prolungata per un sufficiente periodo di tempo[1].

A prescindere dall’istituto della convalida ex art 28 CPI, pertanto, trascorso qualche anno di indisturbato utilizzo di un marchio di fatto senza che il titolare di una precedente privativa, pur avvertito, si attivi fino in sede giudiziaria, sorge in capo all’utilizzatore del marchio di fatto il diritto alla registrazione sul presupposto che siano venuta meno l’esigenza di non confondibilità dei segni, poiché evidentemente questi hanno già acquisito sul mercato un sufficiente grado di distintività dacché, da un lato il pubblico non è indotto in confusione circa l’origine dei prodotti e servizi contraddistinti, dall’altro non sussiste il correlato rischio per il primo registrante di perdere clientela per via di tale presupposta – ma non sussistente – confondibilità.

Ebbene, in tale contesto, il Collegio ha aggiunto un elemento originale, forse coerente con l’impianto dell’istituto della preclusione per tolleranza: qualora il secondo registrante anziché depositare il marchio nella sua massima estensione, come di fatto utilizzato fino a quel momento, si accontenti di depositare una sua versione più limitata, sarà solo quest’ultima a godere della privativa brevettuale. E per di più, lo sarà solo negli stretti limiti del segno depositato senza che cioè trovi applicazione alcuna considerazione in ordine alla nozione di “cuore del segno”, e quindi senza che siano consentite al registrante variazioni “sul tema”, anche minime. In altri termini, è come se la funzione marchio di fatto collassi con il deposito caratterizzando specificamente i caratteri grafici e nominativi del diritto d’uso del secondo registrante dai quali quest’ultimo non potrà scostarsi in alcuna misura.

Così in motivazione: «la registrazione […] di un segno più ristretto rispetto al mero nome patronimico utilizzato in precedenza, non può significare altro che l’intenzione di avvalersi di tale più limitato ambito di privativa» con la conseguenza che la pretesa di «tornare a giovarsi del più ampio, precedente segno si pone come un inammissibile venire contra factum propriam».

Infatti: «altro è l’accertamento della validità di un marchio registrato in forza del preuso del corrispondente marchio di fatto e altro è l’accertamento della validità del marchio registrato in forza della coesistenza prolungata e in buona fede con un marchio confliggente, come appare in tuta chiarezza se si considera che, ai fini della sussistenza della seconda fattispecie, non à necessario che il preuso sia lecito, ossia iniziato prima della registrazione del segno altrui».

Può sembrare bizzarro che la registrazione di un marchio restringa anziché confermare e semmai ampliare i diritti del suo titolare. Ma eccezionali sono le circostanze in cui matura il diritto per coesistenza dei segni e restrittiva e il giudice ha evidentemente considerato eccezionale la sua applicazione[2].

Corte App. Milano, 9 giugno 2020, n. 1392Francesco Rampone – f.rampone@lascalaw.com

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[1] Che potrebbe essere di sette anni, come per esempio è stato riconosciuto nella sentenza Trib. Milano, 17 febbraio 2016, n. 2077, caso Urban Ring.

[2] Ribadendo il pregevole lavoro svolto dalla Corte di Appello, chi scrive (forse condizionato da una prospettiva di parte) nutre qualche dubbio sulla correttezza del principio espresso in sentenza.