05.09.2016 Icon

Mutatio libelli: vale il principio della domanda

La Cassazione è tornata ad esprimersi sulla mutatio libelli consolidando il principio di diritto già espresso sul punto.

La pronuncia in commento trae origine da una domanda giudiziale ove nel corso del primo grado di giudizio l’attore chiedeva il riconoscimento della sottoscrizione di una scrittura privata con cui aveva acquistato dal convenuto un terreno edificabile ed il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento di quest’ultimo, che si era rifiutato di comparire dinnanzi al notaio per il rogito.

In corso di causa, parte attrice modificava l’originaria domanda ex art. 1453 comma 2 c.c., chiedendo la risoluzione del contratto preliminare in luogo dell’adempimento precedentemente richiesto. Il Tribunale rigettava detta domanda e l’attore proponeva appello introducendo, per la prima volta, anche la domanda di restituzione dell’acconto pagato. La Corte territoriale, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava la risoluzione del contratto per inadempimento, affermando, al contempo, l’inammissibilità della domanda di restituzione dell’acconto che l’attore aveva versato al momento della sottoscrizione.

Veniva, così, depositato il ricorso dinnanzi alla Suprema Corte deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 12-345 c.p.c. e 1453 c.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto inammissibile la domanda di restituzione dell’acconto, in quanto proposta per la prima volta nel corso del secondo grado di giudizio. Deduceva, altresì, il ricorrente che in realtà tale domanda era già stata proposta in primo grado, contestualmente alla richiesta di risoluzione del contratto per grave inadempimento del convenuto e che la stessa era da intendersi implicitamente ricompresa nella formula “con tutte le conseguenze di legge”.

Dinanzi a tali doglianze, la Suprema Corte ha ritenuto di rigettare il ricorso per infondatezza del motivo, evidenziando, in particolare, che il ricorrente non aveva proposto alcuna domanda di restituzione né in sede di modifica della domanda, né in alcuna altra sede e che nemmeno la suddetta domanda poteva considerarsi proposta con la generica formula “con tutte le conseguenze di legge”, essendo detta formula una clausola di stile, priva di reale petitum e tale da rimettere al Giudice la determinazione del contenuto della domanda, in violazione del principio sancito ex art. 88 c.p.c.

Così facendo, la Corte ha affermato il principio secondo il quale il diritto ad ottenere la restituzione delle prestazioni, rimaste senza causa a seguito di una pronuncia di risoluzione del contratto, soggiace al unicamente al principio della domanda e che, dunque, è preclusa al Giudicante la possibilità di pronunciare d’ufficio la condanna alla restituzione di dette prestazioni laddove non specificatamente richieste.

In conclusione, con la pronuncia in esame, la Corte ha voluto affermare che la facoltà di mutatio libelli, riconosciuta dall’art. 1453 comma 2 c.c., con riferimento alla possibilità per l’attore di sostituire l’originaria domanda di adempimento del contratto con la domanda di risoluzione dello stesso, si estende anche alla domanda consequenziale ed accessoria di restituzione, a condizione che tale domanda sia proposta contestualmente o, comunque, nel medesimo grado di giudizio in cui è proposta la prima (tra le altre, si veda anche Cass.ne Civ. 13003/2010), essendo esclusa la possibilità per la parte di ampliare il petitum nel giudizio di appello, cumulando alla domanda di risoluzione del contratto proposta in primo grado, la domanda di restituzione delle prestazioni rimaste senza causa a seguito della pronuncia di risoluzione.

Cass., Sez. II, 26 luglio 2016, n. 15461 (leggi la sentenza)Vincenzo Cappelliv.cappelli@lascalaw.com